La continuità è inaspettata.
Due città di mare; due città che hanno fondato la loro fortuna sul commercio, durante due rivoluzioni economiche speculari (la prima nel secolo 12, la seconda all’alba del 19); due città che hanno attraversato una profonda depressione, ancora rintracciabile in dolenti cicatrici architettoniche; due città che hanno precorso i tempi.
Entrambe hanno mischiato il loro sangue a quello di genti ed etnie diverse; entrambe hanno ereditato un intreccio culturale formidabile, tesaurizzandolo in sublimi tradizioni musicali; entrambe hanno inspirato artisti e poeti tra i maggiori dei nostri tempi.
Genova e Liverpool hanno attinto a piene mani dalla loro storia per ricostruire i loro traumi; per raccogliere i cocci ed immaginare un futuro.
Genova è stata aiutata dalla sua pianta urbanistica, dalla sua inaccessibilità, dai suoi abitanti schivi, da un paese essenzialmente incurante ed ignorante del suo patrimonio culturale.
Liverpool, ironia della sorte, è stata parzialmente tradita dalla sua storia recente; spesso dove si voleva conservare e valorizzare, si è tipizzato e “turistificato”; dove si voleva rinnovare e ristrutturare si è deturpato e disarmonizzato.
Non è un fenomeno che ha interessato in toto la città, per fortuna; sopravvivono ancora “luoghi veri”, angoli tipicamente inglesi e legati alla storia di una città marittima, senza dubbio una delle più belle del Regno Unito.
Tuttavia la furia di ristrutturazione e l’esecrabile desiderio di svecchiare ad ogni costo hanno causato, come al solito, danni di vaste proporzioni e aborti architettonici, totalmente avulsi dalla realtà circostante.
Uno di questi è il Liverpool One, una sorta di gigantesco outlet, un mostruoso centro commerciale all’aperto, progettato per risollevare economicamente la città. Enormi costruzioni moderne di acciaio vetro e cemento, dalle forme più improbabili e disarmoniche, si snodano per strade (Paradise Street, nomen omen) che sanno di set cinematografico, ospitando i negozi alla moda e magnetizzando il turismo di massa.
Gigantesco lo è davvero: la zona racchiude un intero quartiere, gran parte del vecchio centro bombardato nel ’42, del quale fino a due anni fa non restavano che macerie e canali dismessi, in una specie di palude artificiale disabitata e dove si mischiavano il Mersey e gli edifici.
Per “rivalorizzare” l’area, si è voluta costruire una città nella città, creando nuovi spazi a misura di consumatore; l’errore è che non si è tenuto conto del vecchio assetto urbanistico di Liverpool.
Risultato: si è costruito un immenso negozio, anziché ristrutturare; e, come un negozio, il centro commerciale pulsa e vive fino alle 5 di pomeriggio, per poi svuotarsi la sera (gli universitari – chi lo avrebbe mai detto? – preferiscono la zona vecchia) e restare deserto come un quadro metafisico.
Ciò significa che nemmeno gli Scousers avvertono come loro quella parte di città, e passano le loro serate, più o meno alcoliche, in zone diverse; la più bella è, come spesso accade in molte città anche in Italia, la zona universitaria.
Camminando per quelle quattro vie parallele, intasate di corpi, locali, pub e negozietti di indiani aperti fino a tardi, ho la netta sensazione di vivere una città “reale”, che non recita parti.
Ragazze seminude (10 gradi e vento atlantico) che s’incipriano per strada, truppe di giovani che cantano a squarciagola, risse tra ubriachi sedate dai cops con il ridicolo berretto a scacchi, pubs nei luoghi più improbabili che ospitano decine di band dal vivo (in una sola serata ho assistito gratuitamente ad almeno 3 concerti).
E la gente sta ad ascoltare!
Allora cominci a capire che il rapporto tra musicista e ascoltatore è molto più stretto di quanto noi continentali possiamo immaginare.
Si può davvero dire che la musica è un “collante sociale”, che unisce le persone e che crea identità; o almeno lo è ben più della poesia o della tradizione culturale scritta.
(Esempio tra i tanti: chiedendo in libreria un classico della letteratura inglese, il commesso, sguardo stralunato davanti a questo turista e alle sue richieste eclettiche, ha dovuto guardare sul computer per capire di che si trattasse.)
Anzi, al contrario, mi ha sempre stupito la pressoché totale mancanza di interesse o cura (estetica e culturale) che talvolta gli inglesi dimostrano del proprio patrimonio artistico.
C’è un mito da sfatare; bisogna smettere di pensare che “solo in Italia queste situazioni!”, e osservare le condizioni in cui spesso versano i beni culturali in paesi reputati più civili del nostro.
Il legame culturale, dunque, è ben più intimo e necessario con la tradizione musicale: è la fascinazione antica del cantastorie, è la bellezza del racconto musicato dell’ “ancyent marinere”.
Questo è il vero significato della rivoluzione del beat inglese dei ’60, rivoluzione nata proprio a Liverpool, città depressa e senza apparenti speranze di rinascita.
Era una città che si appropriava socialmente di soluzioni artistiche fin a quel momento avvertite come estranee (americane, negre); era la poesia ormai inefficace e lontana che lasciava spazio a una nuova fonte di emozioni e narrazioni.
Se ne rendevano conto in pochi allora, la novità era straordinaria e non lasciava tempo per riflettere; ma il beat “was there to stay”.
Non sorprende che gli spiriti più fini e gli osservatori più acuti ci abbiano lasciato testimonianze significative di questo cambiamento epocale, destinato ad essere esportato in tutto il mondo come “nuova arte”, nata e cresciuta nel pieno della società postmoderna.
(Suppongo che sia proprio quando la parola rinuncia al suo status di potere che la musica debba entrare vittoriosamente in campo e (ri?)appropriarsi dei diritti dimenticati.)
Il più famoso manager dei Beatles, Brian Epstein, se ne era reso bene conto.
Così anche i poeti del merseybeat, un movimento poetico nato in quegli anni frenetici, che cercava di tradurre in poesia la potenza beat della “Word of Love”.
Magistrale in questo caso The Mersey Sound, raccolta di poesie di tre autori di Liverpool (presenza assidua in tutte le poesie), purtroppo poco conosciuti in Italia – Adrian Henri, Roger McGough e Brian Patten – che riuscirono nell’ingrato tentativo di far respirare aria nuova e fresca alla lirica inglese: il libro divenne un bestseller, ed entrò negli annali come uno dei libri di poesia più venduti di sempre in Inghilterra.
Non è un caso che, tra le molte piacevolissime poesie della raccolta, alcune siano state scritte e pensate proprio come testi musicali (Batpoem, Car Crash Blues, A Square Dance).
Anzi, si potrebbe azzardare e dire che l’intera raccolta è un tentativo più o meno mascheratamente verlainiano di esportare la musica nel verso: ovvero “De la musique avant toute chose”.
Né è un caso che, nella poesia Me, dove Henri gioca con i nomi di artisti famosi e pensa a chi gli piacerebbe essere se non fosse Henri, il primo nome citato sia quello di Paul McCartney.
Da allora la beatlemania non è mai cessata. L’impatto devastante dei quattro di Liverpool continua a smuovere capitali e masse; la loro musica è entrata in quella terra di nessuno (e quindi di tutti) che la difende dall’invecchiamento e la trasforma in mito; a Liverpool hai la certezza che non solo si è scritta una pagina di storia della musica, ma anche e soprattutto la prefazione e il primo atto del grande cambiamento culturale europeo.
Credo tuttavia che l’orgoglio sfrenato dimostrato dalla città per i suoi Beatles (orgoglio spesso ridondante e ridicolo) sia anche e soprattutto una reazione ad un’altra ben più pesante eredità storica.
Liverpool fondò la sua ricchezza economica sullo schiavismo.
Pochi sanno che nella seconda metà del secolo 19, la città da sola controllava più del 80% del traffico di schiavi d’Inghilterra e il 41% di quello europeo.
L’anima nera del capitalismo della prima rivoluzione industriale si è appropriata indelebilmente di alcune zone della città.
L’Albert Dock, un capolavoro dell’architettura portuale di tutti i tempi, frutto del genio di Jesse Hartley, nonostante l’eccellente lavoro di ristrutturazione e rivisitazione turistica, trasuda dalle sue pietre ancora qualcosa di quell’antica vergogna.
Quell’incredibile chiostro portuale, dove le navi potevano deporre direttamente il loro carico senza alcun bisogno di manodopera umana, in un processo quasi automatizzato, fu la ricchezza di Liverpool, al prezzo di centinaia di migliaia di vite umane vendute al migliore offerente.
Così lo skyline maestoso che si può godere dal Pier Head, con le “Three Graces” in primo piano sul mare e in lontanza la Anglican Church (sesta chiesa più grande del mondo), non può non colorarsi di tinte più fosche, nella consapevolezza che, mattone su mattone, quella ricchezza proveniva anche dalla tratta di vite umane.
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