(...) tutte le culture sono coinvolte l'una con l'altra, nessuna è unica e pura, tutte sono ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche.Edward W. Said, Culture and Imperialism, 1993
A Damio e alla Virgi
Che oggi, in Europa (in Italia!),
parole come quelle di Said stupiscano ancora dopo ventun anni, è un
fatto da registrare con preoccupazione e da tramandare, si spera, per
il ludibrio dei posteri.
Noi italiani, campioni, volenti o
nolenti, delle ibridazioni e delle stratificazioni, ancora ci
facciamo abbagliare come allodole dallo specchietto del "monolitismo
culturale", ideologia secondo la quale, poiché esistono
(postulato) confini culturali, allora è obbligo del politico
preservare la propria "riserva culturale" dalle specie
estranee, che minacciano il nostro equilibrio, e mirano a distruggere
il nostro Eden culturale, che tra l'altro non sapevamo nemmeno di
abitare.
Da ciò: barriere, muri, muraglie,
morti affogati, rumore di acque. Per questo: voti facili e potere.
L'ideologia gioca alle ombre cinesi (!): dà forma al drago e il
bambino spettatore pensa che, poiché se ne parla tanto, il drago
come minimo deve esistere davvero; e che in fondo, basta chiudere la
porta della cameretta per tenerlo lontano.
Un potente antidoto contro il
"monolitismo culturale", che offriamo come buon proposito
per il 2015, è rappresentato, ironicamente, dall'Arsenale di
Venezia. Ironicamente, perché l'ideologia del monolitismo xenofobo
scelse proprio la Serenissima come capitale simbolica del suo
teatrino, approfittando degli echi profondi di nomi come Lepanto,
Turchi, Cristianità, per smuovere gli animi delle folle sempre
bisognose di confini. Di là, loro, le "palandrane del cazzo",
i "clandestini"; di qua noi con "el leon alàdo",
che coraggiosamente difende le nostre posizioni.
E già si potrebbe partire da qui, da
San Marco, per cominciare a smontare il teatrino: l'iconografia
tradizionale lo rappresenta ricciolino, di pelle olivastra quando non
apertamente couleur café; insomma, com'è giusto,
palestinese. Se ne va in Egitto ad evangelizzare, il Marco; alcuni lo
vogliono come primo patriarca di Alessandria. Un santo africano,
insomma, la cui salma viene trafugata, perché ai veneziani manca un
patrono per la novella città (secolo 9). Tintoretto ci aiuta a
visualizzare meglio l'epicità di tale ruberia: San Marco cicchetta i profanatori veneziani fattisi prendere dall'entusiasmo: "Basta scoperchiar tombe, il mio cadavere l'avete già trovato! È quello che manda luce".
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Tintoretto, Ritrovamento del corpo di San Marco, 1566, Pinacoteca di Brera |
Ma quanto più significativo sarebbe
scoprire il meticcio al cuore della città? Il cuore silenzioso e
operante, privo del fascino ritmato delle Procuratie marciane;
sottratto agli sguardi dei mercanti, irraggiungibile dalle fotografie
dei turisti; l'Arsenale, la fucina della potenza concreta della
Repubblica: le galee e le galeazze.
Non ci si chiede mai perché Venezia,
a differenza di qualsiasi altra città rinascimentale italiana, non
abbia un castello. Una risposta potrebbe essere: sulla laguna,
l'intera città è un castello. La verità è che Venezia il castello
ce l'ha eccome: è proprio il suo Arsenale, circondato dal
tradizionale fossato e dalle spesse mura.
Ecco: l'Arsenale porta le sue origini
orientali inscritte già nel suo nome. Daras-sina'ah:
fabbrica. Da cui, attraverso il veneziano "arzanà",
i nostri "arsenale" e "darsena", per sineddoche
applicato ai bacini interni nei quali si costruivano e riparavano gli
scafi.
Ma è
l'entrata dell'Arsenale che più di ogni altra considerazione mostra
fino a che punto l'intreccio e l'ibridazione culturale possano
celarsi anche laddove
sembrerebbero regnare scopi
totalmente opposti.
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Canaletto, Ponte dell'Arsenale, 1732, collezione privata |
È
indubbio, infatti,
che la prima impressione che suscita l'entrata dell'Arsenale è
quella di imponenza e solidità. Le due torri ai lati del canale,
erette nel 1453, vogliono essere disperatamente considerate come
l'ultimo avamposto occidentale-cristiano prima della belva orientale,
che, guarda caso,
ha da poco fatto lo sgambetto ai bizantini.
Venezia ultima ratio,
insomma, dal Rinascimento al servizio del monolitismo. Così pare.
Ma
sono proprio quelle stesse
belve orientali a
sorvegliare, come in un gioco
di riflessi, la porta
dell'arzanà. Sulla riva sinistra sono stati collocati, verso la fine
del secolo 17, trofei di guerra, quattro leoni di marmo provenienti
dalla Grecia, allora
governata dagli ottomani.
Francesco
Morosini (1619-1694),
doge e uomo d'arme veneziano, probabilmente squilibrato, se li portò
con sé dopo i successi delle sue campagne in Peloponneso, i meritati
frutti della sua fatica. Il
curriculum di quest'uomo sorprende sempre il neofita.
Nel
1687, durante l'assedio ad Atene, Morosini fa fuoco sul Partenone,
usato dai turchi come...
deposito di polvere da sparo. Lord Elgin,
al doppio
confronto,
impallidisce. Il tetto del
tempio, fino ad allora rimasto miracolosamente in piedi, sfracella.
"Colpo fortunato", commenta Morosini.
Nello stesso torno di tempo, preleva
e addomestica il Leone del Pireo, statua di epoca ellenistica a guardia del porto di Atene, a
cuccia nella stessa posizione da almeno 1500 anni
(si scorgono ancora, sulla lisa pelle del leone, rune vichinghe,
commuoventi tentativi di lasciare un segno,
risalenti almeno all'anno Mille).
Quindi
il Morosini fa rotta verso
Delo, isola sacra, e decide di portarsi a casa, come souvenir, un
altro leone, proveniente dalla celebre Terrazza dei Leoni;
sculture
arcaiche risalenti al 600
a.C. (il Po avrebbe dovuto
sciogliere ancora varie montagne per mettere insieme la laguna).
Infine, ossessionato
dai felini, Morosini
muore,
non prima di aver fatto imbalsamare il suo
amato gatto, ancora oggi
accarezzabile al Museo di Storia Naturale a Venezia.
Insomma:
se lo scopo dell'entrata
dell'Arsenale era quello di
ribadire l'integerrima unità della cristianissima cultura veneziana
contro gli eccessi orientali, diciamo pure che
sembra dimostrarci piuttosto
il contrario: una
sovrapposizione assurda di culture, un intreccio quasi inestricabile
che appare appena si guardano le cose da più vicino, più
attentamente, un po' come per le rune sulla pelle del Leone del
Pireo.
Allo stesso modo, scegliendo (suo
malgrado) Venezia, la città più marcatamente orientale d'Italia,
come capitale dell'autonomia e del monolitismo, i signorotti della
xenofobia si sono cacciati in un bel pasticcio. E non basta la
crescente e disordinata peniafobia, a cui sembra in fondo giusto
imputare il nuovo successo di queste fruste formule politiche, a
cancellare l'insegnamento di Said (insegnamento che Venezia, come
c'era da aspettarsi, dimostra): non esistono monoliti, esistono solo
ibridi.
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