È
poco più che un ragazzo. Guarda davanti a sé con occhi bene aperti,
attentissimi. Scruta forse le imperfezioni dell'arena prima della
corsa, ma potrebbe anche ammirare il podio, potrebbe, con una punta
d'invidia per il vincitore, o con quella calma profonda in cui
precipitiamo dopo la vittoria. L'auriga sta per stringere in pugno le
redini che si divincolano come serpenti: ma ancora il movimento è
ambiguo, impossibile distinguere se di stretta o di resa.
Lo
sguardo è fermo, il collo saldo: ma già il bicipite è gravido di
una genesi di sforzo. I piedi, realissimi, accidentati, ben fermi a
terra: ma già le labbra sembrano dischiudersi nel primo urlo per
incitare i cavalli. C'è qualcosa che si agita dentro all'Auriga di
Delfi, ma non sappiamo definire cosa. Un'indecisione profonda, uno
scontrarsi psichico, camuffato dietro un'apparenza di quiete e
contemplazione.
Deve
essere questo movimento nascosto che colpisce il visitatore del Museo
archeologico di Delfi, arrivato alla fine della visita, quando per la
prima volta ammira una delle pochissime statue bronzee sopravvissute
del "periodo severo".
Il viso dell'Auriga non è come gli altri
visi delle statue classiche, politi e levigati fino a diventare
disumani, androgeni, tutti simili nella loro siderale distanza. Qui
tutto è vivo, lo sguardo, i riccioli che escono dalla fascia che gli
cinge le tempie, le labbra spesse, così mediterranee, il volto
pieno.
Qui,
nell'apparente stasi ieratica e severa, tutto si muove, tutto ribolle
non visto; non so pensare ad altra miglior rappresentazione
dell'auriga del Fedro, che cerca di mantenere l'equilibro
dell'anima contrastando le spinte dei cavalli imbizzarriti. Oppure,
leggendo la statua in modo opposto, potremmo riconoscere l'ostinazione e l'inquietudine velare gli occhi di Fetonte, un attimo prima di schioccare le
redini e volare l'ultimo volo.
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