venerdì 5 febbraio 2010

Blob e il détournement: rubare per pensare. Un elogio.




“Le idee migliorano. Il senso delle parole vi partecipa. Il plagio è necessario. Il progresso lo implica. Esso stringe da presso le frasi di un autore, si serve delle sue espressioni, cancella un’idea falsa, la sostituisce con l’idea giusta.”


Così il frammento 207 della Società dello Spettacolo, 1967. L’oracolo Debord ha parlato.
Cosa c’entra il più oscuro pensatore francese del Ventesimo secolo con una trasmissione televisiva italiana, altrettanto oscura e fraintesa?
Molto più di quanto potevo immaginare.
Blob è senza dubbio il più riuscito programma della televisione italiana, e molto probabilmente uno degli esperimenti più interessanti da quanto la televisione è stata inventata.
L’idea di base, per quanto semplice, rivela la sua profondità.

La trasmissione consiste essenzialmente in un “blob” appunto, come il mostro del b-movie di Yeaworth del 1957, un ammasso informe di materia aliena che “consumes everything in its path as it grows and grows”.

Un minestrone d’immagini, un wild bunch senza soluzione di continuità di tutte le porcherie che ci propinano le televisioni, commerciali o meno, del nostro paese.

L’unico commento consiste in un titolo, una piccola stringa di testo in alto a sinistra, spesso un gioco di parole (ad esempio, e mi limito a citare la puntata di questa sera, 2 febbraio 2010, “sfiatati”) un pun shakespeariano minimale, un ammiccamento fugace allo spettatore, “chi vuol capire capisca”, che fa da guida silente alla congerie di suoni, parole e discorsi in evoluzione sullo schermo.

Tutto il resto (proprio tutto), dall’interpretazione del titolo, alle citazioni interne alla puntata, alla ricostruzione semiotica del montaggio è lasciato all’intelligenza dello spettatore.

Quest’approccio giocoso, quasi di sfida intellettuale alla Nabokov, è sicuramente uno dei motivi della sua poca popolarità. “Sed omnia praeclara tam difficilia, quam rara sunt”, e per questo faticose: nessuno ha voglia di sforzarsi nella sonnacchiosa fase post-digestiva o neppure ne ha il tempo nella frenetica attesa prima di cena.

D’altra parte, credo sia anche una delle cause principali del suo status di programma di culto tra molti altri: la complicità che si crea tra programma e spettatore, il rimando culturale, il gioco della citazione, l’irresistibile effetto satirico del montaggio inaspettato sono tutti elementi che gratificano chi ha la voglia di seguire le immagini fino alla fine.

Non bisogna dimenticare che si tratta pur sempre di un programma d’intrattenimento, e come tale deve piacere. Confesso che non c’è altro programma televisivo che mi faccia ridere più di Blob. Un piccolo miracolo, se ci si pensa bene: fare satira senza commenti sembrerebbe un’impresa impossibile.
Luttazzi sostiene che la satira altro non è altro che “storia + punti di vista”.
In Blob manca perfino quello; l’unica risorsa è quella dell’allusione sommata al montaggio. Ma sta proprio lì la sua efficacia. Blob non si sporca le mani ma, per così dire, lascia fare tutto agli altri.

Questa “pigrizia costruttiva” consiste nell’ottenere che l’accostamento di più immagini crei ilarità, imbarazzo, contraddizione. E ci riesce eccome. Basti pensare che la puntata monografica dedicata al nostro attuale presidente del consiglio stava per essere censurata. Si faccia bene attenzione: censurare Blob è censurare la realtà.

Perché? Perché Blob è memoria rielaborata.

In ciò consiste il fulcro della sua genialità. Blob diventa “pericoloso” perché riesce a catturare una porzione del reale, ad incorporarla, a digerirla e a risputarla in un altro contesto.

Sto parlando del mostro o del programma? Di entrambi.

La vera conquista di Blob è stata la perdita del contesto come mezzo per ricostituire una semantica. Gli stralci di programmi, strappati al flusso coerente e ordinato del palinsesto quotidiano, rivelano significati nuovi, inediti, inaspettati, imprevisti.

Ma, attenzione, non per questo falsi. Anzi, più veri di prima.

Come il Cosimo rampante di Calvino, Blob esercita l’arte del distacco.
Isola precisi frammenti dal loro contesto, lascia decantare il loro senso acquisito (e perciò stesso forzato, quindi ideologico (spiegherò tutto, aspettate ancora un po’)) e ne fa emergere componenti in precedenza del tutto invisibili allo spettatore, catturato com’era da ciò che potremmo definire “movimento del senso” o “flusso contestuale”.

Il cambiamento della semantica associato al montaggio è talmente efficace da risultare quasi violento. Perché è proprio una violenza quella che opera Blob, una violenza in positivo del significato, che obbliga a ricostruire il senso di un frammento isolato dal contesto.

Si appropria di una parte di verità, la distorce, la immerge in altri ambiti, la tinge di doppi sensi; in una parola la ricrea.

Non c’è altro programma che mi diverte di più, ho detto; ma non ce n’è nessun altro che più mi spaventa, mi scandalizza, mi sconcerta e mi ammutolisce.

Un attimo prima rido per l’accostamento di Rutelli e Clark Gable di Via col Vento e l’attimo successivo rimango raggelato per un’immagine documentata delle rivolte irachene sotto il jingle di Buona Domenica – e questo è solo un esempio: in ogni puntata (meno di 20 minuti, di solito) ci sono decine di momenti simili.

Rubando immagini e forzando il significato, Blob costringe la mente dello spettatore a trovare una spiegazione per quello che sta vedendo.

(Fermatevi 10 minuti e guardatevi il link qui sopra. Il resto può aspettare.)

Per questo motivo, Blob può essere considerato il più riuscito (e, per quanto ne so, l’unico) programma televisivo compiutamente situazionista della storia della televisione.


Debord, avviandosi alla fine del suo magnum opus, nelle due parti conclusive della “Società dello Spettacolo” (La negazione e il consumo della cultura e L’ideologia materializzata), tira le somme di quanto detto fino a quel momento e cerca di districarsi verso una via d’uscita dal sistema delineato e preconizzato nei sette capitoli precedenti.

Lo spettacolo come negazione totale della realtà effettiva ed esistente, come il contrario del movimento storico, come guardiano del sogno dello spettatore, come capitale accumulato fino a divenire immagine, come immobilità sociale e culturale, come frammentazione e dispersione delle forze rivoluzionarie, come separazione compiuta tra vita reale e vita spettacolare (il sogno divenuto realtà di qualsivoglia società teocratica d’ogni tempo e credo): con questa mostruosa “sovrastruttura strutturata” Debord deve in un qualche modo fare i conti.

E se la sua fiducia nella rivoluzione popolare post-capitalistica può oggi farci storcere il naso (“Per distruggere effettivamente la società dello spettacolo occorrono degli uomini che mettano in azione una forza pratica” #203), forse più per la sua ingenuità che per i soliti fantasmi degli anni di piombo, non possiamo invece che rimanere sbigottiti da un’altra proposta, più pacata ma infinitamente più suggestiva.

“Il détournement è il contrario della citazione, dell’autorità teorica sempre falsificata per il solo fatto di essere divenuta citazione; frammento strappato al suo contesto, dal suo movimento, e in definitiva dalla sua epoca in quanto riferimento globale come dall’opzione precisa che essa era all’interno di questo riferimento, esattamente conosciuto o misconosciuto.
Il détournement è il linguaggio fluido dell’anti-ideologia. Esso appare nella comunicazione che sa di non poter pretendere di detenere alcuna garanzia in se stessa e definitivamente (# 208).”

Il détournement è l’appropriarsi di un’idea divenuta ideologia per contestarla e di conseguenza renderla viva, ancora una volta.

L’appropriazione indebita (détournement) restituisce alla sovversione le conclusioni critiche passate che sono state imbalsamate in verità rispettabili, cioè trasformate in menzogne (# 206) .

Debord tocca un nervo scoperto della cultura occidentale: la sedimentazione della conoscenza produce ideologia, quindi ignoranza. Occorre esercitare un pensiero fluido, aperto, che accolga provocazioni, che capisca e interiorizzi le posizioni dell’avversario, che comprenda a un livello profondo la dialettica della cultura.

Debord aveva capito che per capire bisogna necessariamente negare e distruggere. Non c’è movimento nella cultura che non passi dalla negazione del sapere stabilito da parte di un nuovo sapere eretico, che a sua volta è destinato a passare nuovamente in stabilito.

La produzione culturale anticipa necessariamente l’accettazione sociale; precorrendola nega e distrugge.

“Solo la negazione reale della cultura ne conserva il senso (# 210).”

Il significato profondo del détournement è quello di sovvertire il concetto dato per assodato dalla cultura ufficiale al fine di produrre nuova conoscenza e scavalcare il potere ideologico dello spettacolo, “l’ideologia per eccellenza, (...) negazione della vita reale (#215)”.

Lo spettacolo addormenta in quanto non mette in discussione il concetto. Lo spettatore accetta passivamente una realtà rovesciata, la interiorizza: diventa straniero alla sua stessa vita. Il pensiero, dato per scontato, si sedimenta e cade nell’oblio della sicurezza.

La noia è controrivoluzionaria”, tuonava una famosa massima situazionista.

L’arte situazionista (non solo in campo letterario, si pensi ai lavori del CO.Br.A di Asger Jorn), basata sul concetto di appropriazione indebita di pensiero, accetta la dialettica, il movimento della cultura.
Una delle frasi più clamorose di Debord, è proprio un esempio perfetto di détournement: “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine (#34).”

In questo caso il malcapitato è Marx: ma il “furto” non stravolge il significato delle sue teorie: le osserva da un altro punto di vista, approfondisce le sue critiche, ne attualizza il pensiero.

Il détournement doveva essere uno strumento nelle mani della teoria critica situazionista, alle soglie del Maggio francese. L’intento era quello di rovesciare il sistema spettacolare.

Oggi dobbiamo limitarci (in fondo lo stesso Debord, nei Commentari scritti nel ’89, parla di una sconfitta del situazionismo) e ridefinire il suo esercizio come pratica di emancipazione.

Il pensiero copyleft, ad esempio, accetta la sfida di Debord e declina la sua applicazione in ambito giuridico - economico: coll’avvento della produzione di beni immateriali, quali software e applicazioni Web, è possibile creare un solo oggetto di consumo per migliaia e migliaia di utenti.
Anche il movimento Open Source abbraccia la filosofia del “some rights reserved”.

Blob invece lo esercita in ambito artistico. Si appropria d’immagini, le ricontestualizza, attacca il pensiero unico.

Cita al contrario immagini di attualità, le accosta a documenti di repertorio; le accompagna con suoni asimmetrici, fuori fase, come fossero nastri di una composizione minimalista di Reich.


Con Blob la televisione cessa di essere quell’insopportabile mezzo di comunicazione ex-catedra che infastidiva e tanto spaventava Pasolini, e diventa un nuovo esercizio di critica e pensiero.


Nessun commento:

Posta un commento