martedì 23 febbraio 2010

La Chiave Obliqua: L'Universo curvo di Elia Tazzari


L’universo curvo di Tazzari
ovvero, il simbolo e l’oggetto: l’obliquità come nuovo modo di lettura.
“(...) Ogni chiarezza è mascherata
Io parlo di protezione ma la metafora,
Il simbolo, forse non proteggono
Ma amplificano.”
Da Come trattare gli ospiti
Oggi saliremo, dal sangue verso il cosmo.”
Da La mente divisa di Rudolf Steiner

Il nuovo lavoro di Elia Tazzari, La Chiave Obliqua, è un libro estremamente difficile, oscuro, intricato.
Il suo complesso intercedere sembra rispecchiare la lunga e difficile gestazione concettuale che gli sta dietro; leggendolo s'intuisce il lavoro, si avverte il travaglio, si percepisce il sudore.

L’ossatura dei versi nasce dalle teorie e dai pensieri di autori tra i più complessi del panorama filosofico-letterario del Novecento. Tazzari si è fatto carico di un compito a prima vista formidabile, che spaventerebbe chiunque sappia almeno cosa vuol dire scrivere in versi: tradurre in poesia sistemi filosofici complessi e sconosciti al grande pubblico.

I numerosi rimandi alla cultura esoterica e spiritualista del Ventesimo secolo suoneranno al lettore non preparato incomprensibili, inusuali, forse perfino supponenti ed elitari.
Ed è proprio così che dovrebbero suonare.

Vero è che tutto quanto sia eccellente, è tanto difficile quanto raro”, chiosa il grande pensatore olandese alla fine del suo capolavoro, l’Etica (il riferimento a Spinoza non è del tutto inappropriato, come spiegherò tra poco).

Bisogna quindi armarsi di pazienza, rimboccarsi le maniche e affrontare versi apparentemente impenetrabili. Occorre per così dire ripercorrere il travagliato percorso dell’autore, in un unico processo di formazione che accomuna lettore e poeta.

Ed è proprio questo ciò che l’autore vuole da noi: un momento di concentrazione estrema, di profondo raccoglimento. Un tentativo di analisi e autoanalisi che dovrebbe sfociare, come il libro, a un'evoluzione spirituale: un momento di crescita e formazione non solo emotiva ma anche percettiva.
Andiamo con ordine, quindi, e cerchiamo di chiarire alcuni concetti guida per orientarci all’interno del sistema simbolico de La Chiave Obliqua.
Il nucleo di fondazione di questi versi, a mio parere, si potrebbe proprio ravvisare nella riflessione sul passaggio tra esoterismo ed essoterismo, non importa in quale direzione.

Si può considerare la terza opera di Tazzari una riflessione eccezionalmente acuta sul significato dei simboli, e del loro rapporto con la realtà oggettuale che ci circonda.

Il suo sforzo e il suo merito è stato quello di analizzare ad un livello profondo le cause e le conseguenze di una lettura simbolica del mondo.

Come concepire il simbolo? Come pensare compiutamente ciò cui inerisce? Di che natura è il legame con l’oggetto simbolizzato? Come spiegare razionalmente il profondo intreccio che si viene a creare tra mondo e rappresentazione?
Queste le domande fondanti che suscita la lettura di La Chiave Obliqua.

Fin dai primi versi si viene scagliati in un cosmo fatto di rimandi e simboli, inizialmente incomprensibili.
La vista del lettore ridiviene la vista del bambino che guarda il mondo per la prima volta. La selva di metafore e perifrasi, così come il mistero di oggetti senza nome per il neonato, costringe lo sguardo a fermarsi su di essi, e a non dare nulla per scontato.

L’adulto, sinonimo in questo caso di cinismo e disillusione e metafora dell’uomo contemporaneo, non si accorge più della natura degli oggetti che lo circondano. I loro nomi e la loro funzione ne hanno oscurato la primitiva forza simbolica, quel significato nascosto capace di creare un legame non tanto fisico, quanto spirituale con l’osservatore.

Quello che Tazzari riesce a trasmettere al lettore è proprio questa atavica potenza del simbolo, ormai perduta, fantasia profondamente e tipicamente europea, risalente alla più remota antichità (come non ricordare il diverbio sugli universali, o ancor prima lo status trascendente ed intelligibile delle idee platoniche e poi ancora su, su fino a perdersi nei tempi remoti del primo segno colorato sulle pareti delle caverne, per propiziarsi gli dei in tempo di caccia); fantasia rintracciabile senz’altro anche nella modernità, in autori quali Yeats, Pessoa, Steiner, Onofri, Eliot, punti di riferimento imprescindibili per comprendere appieno questi versi.

Su questo continuo scambio tra essoterico ed esoterico, l’autore innesta la sua riflessione.
Uno dei passaggi più alti dell’intera raccolta, Come trattare gli ospiti, testo inedito e raro per tono e profondità, è una chiave (il bisticcio col titolo è voluto!) che può aiutare non poco ad orientarsi.

Non a caso è collocato quasi al centro esatto del lavoro, posto riservato ad un’altra composizione tra le più alte ed evocative: La mente divisa di Rudolf Steiner, nella quale il riferimento al fondatore dell’antroposofia è esplicito fin dal titolo.

Detto per inciso, anche la perfetta simmetria del lavoro (tripartito in tre sezioni raffigurate nel simbolo della chiave) è essa stessa utilissima per comprendere al meglio il significato dell’intera raccolta.
Partiamo quindi da questa composizione, cuore dell’intero corpus, per approfondire l’aspetto teorico dell’opera e per intuirne la portata filosofica.

La poesia è interamente giocata su una dicotomia, che non è solo quella della mente del pensatore austriaco; la divisione è infinitamente più profonda, abbraccia anzi l’intera realtà.

La divisione dell’essere è un tema classico per la filosofia teoretica, che da Platone accompagna da millenni lo sviluppo della società Occidentale, ed è ormai entrata a far parte del DNA dell’europeo: da una parte il mondo inorganico, dall’altra il vivente.

Ancora oggi, tra l’altro, non si capisce che cosa differenzi dal punto di vista biologico le due; ma c’è un salto qualitativo che non rende possibile la riduzione della seconda sfera alla prima (si pensi ad esempio al pensiero di Hartmann, e ai suoi strati dell’essere interconnessi seppur del tutto autonomi).

Steiner ipotizzò, come riportato nelle due citazioni che aprono e chiudono la raccolta, una forza extra-terrestre, immateriale e trascendente che abbraccia e comprende l’intero cosmo, ripercorribile a ritroso dal sasso e dalla goccia, da “zolle celesti” che si fanno mondo (Padre Sogol redime gli alpinisti), oppure come “un’anima segreta che decresce verso il corpo” (La risalita dei salmoni) per arrivare “all’apice turrito unificante Cosmo ed Io” (Il Corpo Segreto).

Questa divisione è presente anche all’interno dell’uomo, come separazione tra i due emisferi cerebrali; il sinistro, sede del pensiero logico-matematico, che tende a schematizzare e ridurre la realtà sotto categorie ordinate e razionali, e l’emisfero destro, legato inscindibilmente alla sensazione, all’esperire sensoriale, centro emotivo del soggetto.

Interessante notare come questa separazione sia presente fin dalla primissima poesia della raccolta, il Dialogo dell’anello, (che richiama, almeno nelle prima battute, il periodare prosastico della raccolta precedente, Lato B) separazione, dicevo, incarnata da due voci antitetiche che esprimono due punti di vista contrastanti e apparentemente irriducibili.

Ed ecco comparire fin dall’inizio anche il secondo grande tema della raccolta, che si potrebbe chiamare il tema dell’obliquità.

Verso dopo verso, parole quali "ricurvo", "curva", "piegare", "ciclo", "cerchio" si rincorrono come un mantra, acquistando un connotato (e sta proprio qui la magia) ogni volta più carico di rimandi, progressivamente imbevuto di suggestioni.

Che cosa significa poesia obliqua, ricurva? Quali sono gli estremi che stiamo cercando di ricongiungere così disperatamente? Che cosa vogliamo rendere uno?
Forse è proprio il simbolo che permette questo tipo di riflessione.

Se pensiamo bene alla sua funzione, allo stesso tempo “cassa di risonanza” e “schermo” dell’oggetto, quello che il simbolo opera dal punto di vista del lettore è una deviazione dal significato letterale.
È il simbolo stesso ad essere obliquo, a costringere ad una lettura obliqua del testo.

Il significato letterale, quale che sia il testo, facilita e si accontenta di una lettura rettilinea, per così dire, facilitata ma anche terribilmente semplificata (forse al punto da divenire, in certi casi, totalmente inutile e sterile).

Il significato simbolico richiede dunque una lettura lenta, profonda, disposta ad essere deviata o “incurvata”.
È grazie al simbolo che è possibile riunire in un unico sistema circolare le due visioni antitetiche di cui si è accennato sopra.

Il simbolo da filo (semplice rimando mentale astratto) si è fatto fune, possibile via di scampo o ancora di salvezza in un sistema che rischiava altrimenti una frattura non più ricomponibile.
“Fune del verso/Sogno di un testo composto”, come profetizza Tazzari in Enigma di Venere e della fune.

Una volta ricongiunti due mondi che si pensavano antipodici, ma in realtà intimamente connessi, possiamo forse pensare di poter redimere la nostra finitudine considerandola parte di un ordine superiore, di una forza extra-terrestre da ripercorrere al contrario, un po’ come fanno i salmoni per tornare al luogo della loro origine, del tutto inconsapevolmente.

“Mi guidino i venti del mondo alla comprensione dell’Io-Cosmo”, ecco l’augurio del poeta a se stesso e al lettore, formulato in Il tuo volto nei miei occhi, verso la fine della raccolta, a curvatura ormai compiuta.

E anche se è possibile che molti non riescano a percorrere fino in fondo il percorso inaugurato da Elia (si veda a questo proposito Verso la rosa, prima poesia dell’ultima parte), ciò che importa è che almeno sia stato delineato e pensato.

Così almeno sembra volere intendere la poesia che chiude la raccolta, La visione di Brâncuşi; dopo aver cercato, come sembra dirci, di “tradurre l’astratto in concreto”, di piegare la colonna infinita in un eterno cerchio di nietzschiana memoria, significativamente termina con la parola “ricongiunta”.

Tuttavia, è forse in La valle delle lanterne che Tazzari tocca l’apice espressivo. Con due strofe simmetriche e perfettamente equilibrate, che vale la pena riportare integralmente, l’autore riesce a comunicare questa comunione profonda con un’immagine semplice e violentemente espressionista.

Versi che stupiscono per carica evocativa e nitore; è raro che un autore così giovane padroneggi così bene lessico e contenuto; versi a cui non si deve aggiungere altro, per non rischiare di rovinarli col tocco del commento; versi che echeggiano potenti nella memoria, assicurati a questo mondo, affrancati per ora dalla dimensione di “muti simulacri del tempo” (L’eredità del poeta).
Lumi magri come i fiumi della carne
Tremo ancora al pensiero dei nostri tentativi:
Sangue e corpo, sangue che fa carne
Sangue vuol dire mortale
E tutti sanguiniamo.
Fiumi ora scissi dall’umano
Alzano i flussi verso mondi che sono preclusi:
Sangue e spirito, sangue che fa cosmo
Sangue vuol dire immortale
E tutti sanguiniamo.

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