“Novello
Hermes”, “divin
Prometeo”: questi gli epiteti
più ricorrenti tra i biografi antichi dell'artista di Vinci. Un
Leonardo ambiguo, maestro dei segreti naturali; un mago eretico; una
creatura a contatto con le superne sfere celesti; o anche un Leonardo
che vede il futuro, lo anticipa nel sapere e nelle tecniche; che
indaga la natura con tutto se stesso anche a costo della più
desolante solitudine per il bene del genere umano.
Invece
di rifiutare l'avvicinamento alla divinità in nome di un'impossibile
verità storica, sarebbe forse più adatto cercare in un altro
personaggio del pantheon antico i caratteri autentici di Leonardo. Si
tratta di Proteo, la
divinità sempre cangiante, sfuggente, irriducibile ad ogni
descrizione.
Leonardo
è infatti un groviglio di credenze; e come il dio greco, prende la
forma più consona allo spirito dell'osservatore, si piega secondo
fini e voleri, cambia in continuazione pensiero e qualità. Si perde
nella nebbia fitta della più pura mitografia.
Nessuno
potrà mai penetrare del tutto questo spirito; certamente, ci si
potrà avvicinare sempre meglio al dato storico, con sempre maggiore
distacco critico; ma l'ambiguità del carattere, la confusione del
pensiero vinciano, l'eredità e l'influenza che dobbiamo ai suoi più
prossimi biografi non ci abbandoneranno mai del tutto.
È
con questo approccio, consapevole dei propri limiti e quindi
pluralista, che vogliamo qui analizzare un aspetto preciso dell'opera
di Leonardo, che ritorna più volte in ogni documento e in ogni
descrizione storica: il non-finito.
...
Curiosamente,
questo è il carattere che più lo avvicina al suo storico
“avversario”, Michelangelo. Entrambi sono divenuti celebri ai
posteri forse per i loro progetti e per i loro affascinanti frammenti
più che per le opere effettivamente portate a termine. E se non lo
si può dire con certezza di Michelangelo – pensiamo però ai suoi
Prigioni, alla tardiva
Pietà Rondanini –
lo si può senza dubbio affermare per Leonardo.
Sono
poche le opere che ha portato a termine, così come sono scarsi i
risultati delle sue infinite osservazioni scientifiche. Uno spirito
sempre insoddisfatto, all'inseguimento di un ideale che non può
raggiungere: così la Gioconda,
perennemente ritoccata fino agli ultimi mesi della sua vita; così la
Battaglia di Anghiari,
forse murata dietro l'affresco vasariano di Palazzo Vecchio,
abbandonata per via della sperimentazione della tecnica a encausto; o
anche il Cenacolo,
salvato solo grazie ad un sovrumano restauro.
I
documenti che attestano questa sua particolare insoddisfazione,
questa inquietudine caratteriale, compaiono già pochi anni dalla sua
morte, nel 1519. Vasari, nel 1550, nelle sue Vite,
aveva delineato l'attitudine leonardiana in questi termini:
“Trovasi che Lionardo per l’intelligenzia de l’arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finí, parendoli che la mano aggiugnere non potesse alla perfezzione de l’arte ne le cose, che egli si imaginava, con ciò sia che si formava nella idea alcune difficultà tanto maravigliose, che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai.”
Ma
quali sono le ragioni profonde di questo non-finito? Vasari dà la
risposta più frequentemente citata e ripresa: la mano non riesce a
seguire la mente. È una discrasia mente
– mano
che non permette a Leonardo di compiere ciò che inizia: immagina
cose tanto perfette, che ogni tentativo di rappresentazione, per ovvi
limiti fisici, è destinato al fallimento.
Vasari
è solo il più celebre di molti altri interpreti di Leonardo. Ancor
prima, Castiglione, nel suo Cortegiano
(1528), scrive:
“Un altro de' primi pittori del mondo sprezza quell'arte dove è rarissimo ed èssi posto ad imparar filosofia, nella quale ha cosi strani concetti e nove chimere, che esso con tutta la sua pittura non sapria depingerle.”
Anche
per Castiglione è un'incapacità tecnica a spiegare il non-finito
leonardiano; ed è stato in particolar modo un avvicinamento alla
filosofia che ha spinto Leonardo a lasciare il seminato del pittore
verso “nove chimere” filosofiche che non spetta – verrebbe da
dire – all'artista indagare.
Forse
è in atto nel Cortegiano
la famosa distinzione, che tuttavia andava allora indebolendosi, tra
arti meccaniche ed arti liberali e consegnava a queste ultime il
primato della contemplazione. Oppure, più probabilmente, è la
bizzarria di Leonardo, che appariva agli occhi dei suoi contemporanei
come una sorta di mago naturale, a guidare la penna del trattatista
mantovano.
A
questo proposito, è interessante riportare questo aneddoto di
Lomazzo, più tardivo – nel suo Trattato
de l'arte de la pittura,
1584 – ma sempre illuminante:
“Leonardo Vinci (…) dipingendo nel refettorio di Santa Maria delle Grazie in Milano una cena di Cristo con gli Apostoli (…) fece Giacomo maggiore e [Giacomo] minore di tanta bellezza e maestà, che volendo poi far Christo, mai poté dar compimento e perfettione à quella santa faccia (...)”
Nella
finzione dell'aneddoto è addirittura la stessa perfezione dello
stile di Leonardo a bloccare l'artista proprio quando avrebbe più
bisogno della sua tecnica.
Paolo Giovio, storico suo coevo, parla più verosimilmente nella sua Vita
di Leonardo
(1527) di una “eccessiva
meticolosità”
nelle tecniche e nelle sperimentazioni, che avrebbero reso
impossibile il completamento di molti dei suoi lavori.
Carattere
lieve e inquieto, capriccioso; incapacità tecnica di rappresentare il movimento
frenetico del suo pensiero; eccessiva ricerca metodologica e
sperimentale, che non permette la concentrazione necessaria al suo
genio; perenne insoddisfazione di sé: questi sono i caratteri che
emergono nelle riflessioni dei biografi e degli artisti a lui più
prossimi.
Tuttavia,
il non-finito leonardiano non ha mai cessato di rappresentare una
sfida ermeneutica per chi, nel corso dei secoli, ha cercato di
accostarsi alla sua figura. Alcune delle interpretazioni più
interessanti emergono anzi nel secolo scorso, con l'avanzamento degli
studi filologici e artistici attorno al pittore toscano.
Singolare, ad esempio, l'ipotesi di Gentile, che nel 1919 dedica una saggio al “filosofo”
Leonardo, cercando di confutare l'ipotesi di Croce, che nel 1906 aveva
violentemente rigettato l'etichetta di “Leonardo uomo universale”, negando
con forza la “filosoficità” del suo pensiero.
Gentile
non è d'accordo con Croce: Leonardo è stato anche
filosofo. Forse non originale, immerso com'è in meditazioni di
stampo neoplatonico ficinizzante, ma pur sempre pensatore capace di
profonde riflessioni matematiche e artistiche, e soprattutto artista
consapevole di esserlo. Conscio perciò della sua potenza creatrice,
capace di eguagliare la divinità su questa terra, ma sempre nei
limiti di una dimensione tutta umana.
Limiti intrinseci all'esperienza umana, poiché le
leggi di natura, matematiche e divine, sono infinite e infinitamente
trascendenti le nostre possibilità: è perciò impossibile
cercare di riprodurle sulla tela.
“Leonardo, l'eterno insoddisfatto, l'incontentabile, (…) è al cospetto di quella natura che non si lascia chiudere in nessun libro, e che avvince piuttosto essa a sé l'uomo. (…) Né in arte né in scienza – che già per lui sono una cosa sola – egli concepisce forma perfetta nella quale altri possa posare. (…) Sterminata la natura; irraggiungibile quindi l'ideale della scienza, arte o speculazione che sia.”
Secondo
Gentile è quindi una perfetta adesione ai suoi ideali filosofici
neoplatonici a fare di Leonardo un artista consapevole
dell'imperfezione dell'arte umana di fronte a quella del creato, e
perciò stesso condannato ad un'opera imperfetta: sempre aperta al
miglioramento, certo, e perciò mai definitivamente compiuta.
Meno
propenso a questo tipo di speculazioni è Cesare Luporini, che ne La
mente di Leonardo del
1953, si concentra sull'attività scientifica di Leonardo e ne
interpreta il non-finito in termini dialettici e sociologici (si veda
in particolare il primo capitolo dell'opera).
Non
è dunque questione di carattere o di eccessive fantasticherie
mentali; né si tratta di adesioni a ideali neoplatonici – niente
di più lontano dalla realtà. Il vero problema di Leonardo è stata
la sua novità. Troppo presto per la storia, in anticipo sui tempi: è
questa la contraddizione leonardiana secondo Luporini.
Ancora
legato a modelli cosmologici scolastici e tardo-aristotelici, non
sarebbe stato in grado di portare a compimento le sue geniali
osservazioni, di collegare assieme le rapsodiche intuizioni veramente
scientifiche in un unico rivoluzionario trattato. Attrito della sua
personalità innovatrice contro un mondo ancora impreparato a
riceverlo: questa la vera causa (dialettica) del suo non-finito.
Garin,
altro grande esponente della scuola toscana, in un saggio del 1962
(L'universalità
di Leonardo)
interpreta in un modo diverso, eppure legato alle prime spiegazioni
che abbiamo analizzato: a frenare l'indefessa curiosità e attività
di Leonardo è la sua stessa concezione di pittura. È nella “scienza
della pittura” che ogni altra conoscenza acquisita, ogni
osservazione empirica in ogni campo del sapere, va investita per
raggiungere la sintesi
suprema.
Le opere di Leonardo sono rare perché difficili: ma immense. Scrive, infatti, verso la fine del saggio:
“Per questo i disegni di Leonardo, e gli appunti e gli abbozzi di libri, sono tanti, e i dipinti pochissimi – perché più o meno consapevolmente Leonardo sa che l'ultima parola è una sola: che in un volto o in un paesaggio si concentra tutto.”
L'arte
di Leonardo è poca e spesso non finita perché in essa si concentra
la massima sintesi del vero sapiente: è il vero momento “metafisico”
della riflessione di Leonardo, che tuttavia non si chiude nella pura
speculazione, tutt'altro. È il sapere che si concentra in un fare:
fare l'arte. Perciò i tentativi saranno molti, le riuscite
pochissime, ma di una grandezza irraggiungibile. Ecco in cosa
consiste, in poche parole, l'universalità di Leonardo secondo Garin.
Infatti, poco più avanti:
“Per dipingere un volto, ossia il suo significato, la sua realtà, la sua verità, bisogna saper vedere tutta la massa di muscoli sotto la pelle, tutti i vasi e gli organi nelle loro minuzie, e le ossa, e aver visto imputridire tutto ciò e averne sentito il fetore – e aver sorpreso il variare delle espressioni con le emozioni, e il mutare di luci e di ombre su tutti i volti e il loro invecchiare e avvizzire: e averne fissato le ragioni e le leggi.”
Ennesima spiegazione del non-finito: questa volta è la particolare concezione "universalistica" della pittura leonardiana che sancisce la difficoltà
operativa del pittore e del compimento dell'opera d'arte.
Esempio
più vicino a noi di una nuova e interessante prospettiva sul nostro tema, è il libro di Esposito, Pensiero
Vivente,
edito nel 2010 da Einaudi, nel quale è dedicata una sezione alla
Battaglia di Anghiari,
capolavoro del non-finito leonardiano.
Rovesciando
la tradizionale interpretazione negativa del non-finito come spreco
del talento di Leonardo, come insoddisfazione eccessivamente
capricciosa, come incapacità tecnica, si individua proprio nel
continuo sforzo di “rappresentare
il non-rappresentabile”
la grandezza del pittore toscano. Uno sforzo sì destinato a restare
incompiuto, ma perennemente in atto, cercando di accorciare la
distanza tra possibilità infinita della mente e capacità limitata
della mano.
Ad
una riflessione più accorta, possiamo vedere come Esposito ritorni
all'interpretazione di Vasari seppur con spirito del tutto diverso:
si valorizza il non-finito invece di condannarlo – segno forse di
questi tempi e del cambiamento di prospettiva dell'estetica
contemporanea.
È infatti curioso che sia proprio questo carattere di apertura ermeneutica, questa incapacità del genio di Leonardo nel completare, ad avere più colpito i suoi interpreti. Affascina come il graffio sulla tela questa mancanza leonardiana; e sfida l'intelletto che non riesce a giustificarla, a spiegarsela.
È infatti curioso che sia proprio questo carattere di apertura ermeneutica, questa incapacità del genio di Leonardo nel completare, ad avere più colpito i suoi interpreti. Affascina come il graffio sulla tela questa mancanza leonardiana; e sfida l'intelletto che non riesce a giustificarla, a spiegarsela.
Rimane infatti aperta una, anzi, la domanda: in cosa consiste il fascino
del non-finito, leonardiano e non? Cosa ci attira nel frammento,
nell'incompiuto, e perché?
Il "non finito" è la caratteristica del genio. Come il "non luogo", il "non nome", il "non tempo", ecc... L'astuto Ulisse crea un "non nome", Nessuno, per ingannare Polifemo, e un "non luogo", il cavallo di legno, per ingannare i troiani. Queste entità frutto di processi ricorsivi sono state usate anche da Gesù e Michelangelo Buonarroti. Cfr. Ebook (amazon) di Ravecca Massimo: Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo.V
RispondiEliminaGrazie mille della condivisione!
RispondiEliminaLeonardo che con la sua arte che produsse diversi "non finiti", nella Gioconda potrebbe aver creato un "non volto" femminile, assieme a un "non paesaggio". Un volto ideale madre di tutti i volti, a partire da quello dell’autore. Così il volto della Gioconda ci rimanda a quello di Leonardo da Vinci, oltre a contenere le conoscenze dell’autore nei campi dell’ottica, estetica, anatomia, geologia, idraulica, scenografia, pittura. Il volto femminile del dipinto conservato al Louvre è sovrapponibile all’Autoritratto di Leonardo conservato a Torino, una volta ribaltato specularmente. Per ultimo, un possibile rimando subliminale al volto sindonico, come apparve nel negativo fotografato nel 1898 per la prima volta. Anch’esso somigliante con quello dell’Autoritratto di Leonardo da Vinci conservato a Torino. Questa sarebbero le ragioni profonde del fascino del dipinto e dell’iconoclastia cui è stato sottoposto nello scorso secolo. Cfr. ebook/kindle La Gioconda: uno specchio magico.
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