Parte prima. Un elenco incompleto.
La
domanda è delineata: che cosa ci attira in un'opera non-finita? Cosa
la rende affascinante e perché? Quale categoria estetica può
spiegare questo fenomeno?
Poiché
è indubbio che il non-finito riesca spesso ad ammaliare il suo
interprete più dell'opera compiuta. Sono troppi – e troppo famosi
– gli esempi di questo tipo per continuare a pensare che sia
soltanto un caso, una qualità legata semplicemente al genio
dell'artista. Ed è curioso notare che malgrado la forza espressiva
di molti lavori non-finiti, i maggiori teorici d'estetica non abbiano
approfondito l'argomento più dello stretto necessario.
Mi
viene subito in mente l'inspiegabile Sinfonia n. 8 di
Schubert, forse l'esempio di non-finito musicale più famoso della
storia assieme al Requiem di Mozart. Ma se l'incompiutezza di
quest'ultimo è dovuta, come tutti sanno, alla morte del suo
compositore, nessuno ancora è riuscito a spiegarsi perché Schubert
non abbia potuto (o voluto) completare quello che, molto
probabilmente, avrebbe costituito il capolavoro della sua vita.
Perché
la Sinfonia n. 8 è la testimonianza musicale non solo del
genio di Schubert, quanto piuttosto dello spirito di quei tempi: la
prima grande attestazione del romanticismo nascente, l'apertura di
una nuova epoca artistica.
Altra
grande opera non-finita del primissimo periodo romantico è il
misterioso poemetto di Coleridge, Kubla Khan,
versi imbevuti di orientalismo e maledizione molto prima che entrambi
questi elementi rifluissero nella poetica francese “maledetta” di
moda a fine secolo. Una
visione oppiacea di un grandioso poema epico moderno, affacciatosi
alla mente di Coleridge già completo; visione infranta per sempre
dall'intrusione di uno sconosciuto – l'ormai proverbiale Person
from Porlock
– che distoglie il poeta dall'opera e dilegua ogni ricordo preciso
del sogno. Così scrive Coleridge nel 1816, quando il frammento fu
pubblicato per la prima volta:
“At
this moment he was unfortunately called out by a person on business
from Porlock, and detained by him above an hour, and on his return to
his room, found, to his now small surprise and mortification, that
though he still retained some vague and dim recollection of the
general purport of the vision, yet, with the exception of some eight
or ten scattered lines and images, all the rest had passed away like
the images on the surface of a stream into which a stone had been
cast (...)”
La
quotidianità che interrompe l'attività creativa, lasciando solo
qualche accenno confuso della grandezza di una visione per sempre
perduta. Accenni che si ritrovano, quasi allo stesso onirico modo,
nell'espressionismo violento e abbozzato della Quinta del Sordo,
le visioni notturne che Goya dipingeva sulle pareti di una delle sue
camere.
Sembra
quasi che si vogliano mantenere in vita gli incubi silenziosi e
confusi fatti di notte, pitturando selvaggiamente sulle pareti,
quando ancora il ricordo del sogno è fresco; e popolarne i muri di
esseri terribili, a volte appena tratteggiati: caproni, vecchi,
lottatori, cani, sabba stregoneschi, giganti... Gli incubi d'un
epoca intera si avvicendano tra queste quattro mura. Non a caso, questo ciclo di opere venne chiamato Pinturas Negras: e per le scale cromatiche e per i soggetti.
C'è
da distinguere, in questo caso: si può parlare di non-finito goyesco
solo per quanto riguarda lo stile pittorico – i quadri in sé
sono infatti “ultimati” nelle intenzioni dell'autore – stile
composto da tratti violenti e sommari, che il pittore spagnolo poté
permettersi proprio per il carattere personale delle opere stesse.
Paradossalmente, il finito per Goya si rovescia in non-finito per il
suo interprete, che può solo intuire le forme, chiare nella mente
del pittore.
L'esempio
per eccellenza è il Perro Semihundido:
tale è l'informità del tratto, la prevalenza del colore puro, che
ogni significato, ogni interpretazione si perde nella pura
congettura, creando lo stesso effetto dell'opera non-finita. E,
ancora una volta, precursione, anticipo: nato dalle visioni della
Quinta del Sordo,
nella cattolicissima Spagna, ci vorrà ancora un secolo perché la
potenza dell'espressionismo inventato da Goya possa vitalizzare
l'algida pittura mitteleuropea.
Di
italiani avevamo già parlato nell'ultimo intervento [vedi
intervento precedente, dedicato al non-finito in Leonardo],
segnalando quanta e quale parte abbia il non-finito nei lavori dei
due giganti dell'Umanesimo, Leonardo – Battaglia di Anghiari,
Cavallo Sforzesco, Cenacolo, e l'enorme messe di
schizzi e appunti dei suoi manoscritti – e Michelangelo – la
speculare Battaglia di Cascina, i Prigioni, le Pietà
Rondanini e Bandini.
In
entrambi il non-finito sembra quasi diventare una tecnica, applicata
sistematicamente in più e più opere: le speculazioni sulle ragioni
di tale scelta abbondano, e qui non abbiamo tempo di approfondirle.
Non-finito,
quello italiano, che ricompare violentemente nelle lettere del nostro
classicissimo paese grazie al lavoro visionario e, si potrebbe forse
dire, europeo, di Dino Campana.
Ancora
non sappiamo se sia stata la pazzia del poeta romagnolo a condannare
per sempre i suoi Canti Orfici all'incompiutezza, o piuttosto
sia stata colpa del suo talento ondivago, da alcuni critici sempre
violentemente rinnegato – in primis da Papini, che, assieme
al suo compare Soffici, riuscirà a perdere la prima preziosissima
stesura di un'opera destinata a restare nella storia del Novecento
italiano: Il più lungo giorno,
cambiato nel titolo definitivo solo più tardi.
Con
Campana siamo sempre nel territorio della confusione: e per quanto
riguarda la sua poetica, e per quanto riguarda la sua biografia. È
fin troppo facile innalzare erroneamente la sua statura al mito, ma
sempre più spesso la moda in ambito critico sembra essere diventata
piuttosto la tendenza a sminuirne l'importanza. In media stat
virtus, come si dice.
Una
cosa è certa: se l'importanza di un autore, come non
credo, è da misurarsi davvero nella sua fortuna, Campana si potrebbe
tranquillamente relegare tra i poeti di secondo ordine. Pochi sono
stati i successori capaci di emularne la forza e le intuizioni.
Campana è il tipo di poeti che nascono e muoiono da soli; e più del
citatissimo e scontato Rimbaud, a me ricorda Hölderlin.
[Un Hölderlin più sgangherato, sgrammaticato, provinciale, lontano
dalle finezze teologiche del seminario di Tubinga, e molto più
vicino alle prostitute genovesi, senza alcun disprezzo per queste
ultime – anzi, con vivi ringraziamenti.]
Ma
torniamo al non-finito. È certo che i Canti Orfici posseggano
le qualità proprie del non-finito: continuano ad essere letti,
generazione dopo generazione; rimangono inspiegabili e inspiegati –
anche considerando il retroterra geografico e culturale della loro
provenienza – stupiscono, infastidiscono e affascinano sempre
l'interprete.
L'elenco
potrebbe continuare ancora a lungo: il De Rerum Natura, che si
esaurisce bruscamente con la terrifica visione della peste di Atene,
potrebbe costituire il nostro aggancio con l'antichità; e, saltando
alquanto irrazionalmente, il celebre Petrolio di Pasolini,
sarebbe il riscontro più che moderno del fascino che continua ad
esercitare, anche oggi, il non-finito sui suoi interpreti (e davvero,
basterebbe raccogliere i fiumi di pagine che sono stati scritti
riguardo l'opera incompleta dello scrittore friulano per rendersene
conto).
Gigi Meroni un genio nel calcio e nella vita. Come il suo gol all'Inter, con un pallonetto, mentre retrocedeva dalla porta avversaria. Quando andava a spasso con una gallina al guinzaglio, quando si fingeva giornalista e chiedeva alla gente che cosa pensasse di Gigi Meroni, lui che si disegnava i suoi vestiti originali da solo, e che come pittore, non finì mai il ritratto della sua amata Cristiana, non riuscendo a fargli gli occhi. Ma il "non finito" è la caratteristica del genio, come si è manifestato anche in Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti. A volte anche la vita è un "non finito". Cfr. ebook (amazon) di Ravecca Massimo. Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo. Grazie,
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