sabato 23 giugno 2012

Sul non-finito. Contro la teoria dell'apertura ermeneutica.


Seconda parte. Contro la teoria dell'apertura ermeneutica.

Un elenco da solo non basta per rendere ragioni del fenomeno: ci dà l'idea, alquanto confusa, della sua importanza, ma ancora non siamo stati capaci di approfondire. 

Perché e cosa rende affascinante questi esempi di non-finito? C'è un fenomeno estetico comune alla loro base?

Non convince molto l'ipotesi più frequentata dai critici d'arte, nonché la più immediata: l'ipotesi dell'apertura ermeneutica. Il non-finito, grazie alla sua indeterminatezza, riuscirebbe più dell'opera completa ad ammaliarne l'interprete, poiché è sempre possibile darne una lettura diversa.


Per quanto convincente ad una prima lettura, bisogna ammettere che questo carattere, benché probabilmente presente nelle opere che abbiamo ricordato più sopra, non marca una differentia specifica vera e propria tra non-finito e arte comunemente intesa.

Ogni opera artistica in quanto tale è aperta a diverse interpretazioni, e la diversa ampiezza di lettura, di solito, ne determina la fortuna tra il pubblico. Quanto più la sua ermeneutica rimane indefinita – ciò che di solito si sente espresso col sostantivo “profondità” – tanto più l'opera sarà apprezzata.

Il non-finito non è quindi tale per una sua più ampia indeterminatezza ermeneutica. Altro argomento contro questa ipotesi è che, così come l'arte è fatta da maestri e allievi, similmente accade per il non-finito. Un incompiuto svolto da un artista insignificante, difficilmente colpirà come il non-finito del suo maestro.

Nel non-finito rimane traccia del segno personale e della profondità dello spirito che lo svolge, e la sua fortuna è legata in primo luogo a questi fattori. In altre parole, l'ampiezza ermeneutica di lettura è dovuta più ai meriti dell'artista che al non-finito stesso.

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