lunedì 25 giugno 2012

Sul non-finito. Ultima parte.

Parte ultima. Umanismo e anti-umanismo in una teoria estetica del non-finito. 

Bisogna sottolineare che, in questo discorso, non rientra lo studio della cause del non-finito, quanto piuttosto quello dei suoi effetti. Le esperienze estetiche che scatena sono infatti indipendenti dalla sua origine. Per questo il Cenacolo – che il tempo ha reso non-finito – è, in linea teorica, assimilabile ad uno dei tanti Prigioni di Michelangelo, nati incompiuti. Non si fa differenza tra volontà (o meglio, mancanza di volontà) dell'artista ed effetto casuale del tempo.

Si è detto che il non-finito raggruppa attorno a sé tante esperienze estetiche diverse: fascinazione e ammaliamento – altri direbbero “rêverie”; senso di perdita e rottura simmetrica dell'armonia; fastidiosa sensazione di perdita irreparabile; forse l'intuizione della sublimità del tempo.

Potremmo quasi azzardare una definizione: il non-finito è il contrario dell'opera classicamente intesa. Laddove un'opera d'arte si dice classica quando è perfettamente compiuta in sé stessa, equilibrata e proporzionata, nel senso più alto “finita” (e pensiamo al particolare valore che, nel mondo greco antico, il termine “limite” assumeva), il non-finito è l'opera che rompe l'armonia, la simmetrica perfezione di forme e di lettura, e diviene aperta, illimitata allo sguardo dell'interprete.



[Da notare che “classico” in questa accezione non si contrappone al termine “romantico”, anzi – anche le opere romantiche, che spesso rappresentano soggetti che classici non sono, nelle loro forme sono perfette, armoniche e compiute tanto quanto le prime.]

Da un lato l'opera chiusa e classica, che s'impone all'interprete; dall'altro l'opera non-finita, aperta e sbilanciata, che ha bisogno dell'interprete per essere completata.

Come vediamo, in questa sistemazione teorica il non-finito è inteso negativamente come mancanza di ordine. Da questa concezione deriverebbero due diverse possibilità teoriche: la prima vede il non-finito come smacco e mancanza della singola mente artistica, e da qui dedurrebbe le sue conclusioni estetiche; la seconda allarga invece il campo e intende questa mancanza come tipica dell'uomo in generale.

Seguendo la prima conclusione, si vuole derivare il fascino del non-finito dal fallimento che rappresenta nei confronti del suo autore. Anche la migliore mente artistica, grazie al non-finito, si avvicina umanamente all'interprete, fallibile e imperfetto come lui. Conclusione umanistica, quindi: il non-finito rende l'opera più umana, è il baffo che imbratta il viso della Monna Lisa, che si fa beffe della compiutezza.

Conclusione, tuttavia, non del tutto convincente; include una spiegazione personalistica della rottura d'equilibrio (colpa dell'artista), il fascino e l'elemento della fantasticheria, ma lascia fuori i sentimenti di perdita e di irreparabilità.

La seconda lettura cerca di tenerne conto, e si concentra sull'aspetto sublime del non-finito, che diviene così come il graffio irreparabile sulla bellezza. Il non-finito è la martellata che distrugge il viso della Madonna nella Pietà. Atterrisce per la sua potenza sul volere umano. Segnala la finitezza dei nostri sforzi. A differenza della prima lettura, quest'ultima è profondamente anti-umanistica.

È l'irreparabilità della mancanza, il sentimento di perdita che emerge violentemente; affascina ciò che non vedremo mai compiuto, ciò che è andato perduto per sempre. É un vuoto che riempie la lettura dell'interprete.

Ma cosa ci affascina dell'occasione perduta? Perché semplicemente non ci getta nello sconforto, perché non ci fa distogliere lo sguardo infastiditi? Oppure, ancora più verosimilmente, perché non ci lascia indifferenti?

Per lo stesso motivo per cui, secondo Kant, il potere terrificante di una tempesta in mare aperto, la visione di un cadavere, d'un condannato a morte sul patibolo continuano ad esercitare una forte fascinazione per tutti noi: osserviamo e sentiamo il brivido della nostra finitezza.

Viviamo l'irreparabilità del tempo, la potenza del caso. Per riprendere paradossalmente la definizione di poco fa, l'opera classica e compiuta esalta il lavoro dell'uomo, elevandolo all'infinito; il non-finito fa emergere invece la sua precarietà ontologica, la finitezza esistenziale, la sua temporalità.

Che sia causato da una rinuncia alla sfida artistica, da una mancanza di forze, dal caso, dal tempo, poco importa: il non-finito resta sempre come una menomazione del lavoro umano; una cicatrice sul sentimento umanistico dell'uomo-misura dell'universo; un sublime e paradossale marchio della nostra finitezza.  

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