martedì 13 aprile 2010

Il viaggio e la scomparsa della geografia. Genova.



Pasolini fu il più acuto testimone del “genocidio culturale” che interessò l’Italia nei primi anni Sessanta.
Il sistema economico (post)capitalista entrava allora per la prima volta nel nostro Paese; un paese ancora prevalentemente povero, o “paleoindustriale” come amava definirlo lui. Entrava col denaro al posto dei fucili, con sembianze in apparenza progressiste, innocue, banali.

Tutto cambiò nel giro di una decade. La nuova ideologia edonista attaccava alla radice una società che non era pronta, non aveva ancora gli anticorpi per difendersi da una così formidabile novità.

La società dei consumi, spazzando via il vecchio (dialetti, microequilibri, religioni), piegandolo alla sua logica, s’appropriava degli spazi di una società destinata alla scomparsa per stabilire il suo sistema di regole.

Io sono figlio di quel post-capitalismo. Anzi, sono figlio del più radicale e potente dei post-capitalismi, quello che non ha conosciuto muri né barriere se non il globo stesso.

Non ho potuto assistere al cambio di paradigma. Di conseguenza non posso decidere quale dei due sistemi sia il migliore. Posso però, attraverso le parole di Pasolini, capire il cambiamento e intuire che il mondo in cui vivo, le città che abito, i passatempi che scelgo, tutto questo è il risultato di un complesso concatenarsi di cause che ha avuto la sua origine in quel decennio cruciale.

Mi si sono aperti gli occhi (e da allora non li ho più richiusi) quando, per la prima volta, lessi nel mondo le cose che avevo già letto nei libri. Quando riconobbi che quello che avevo studiato, si era realizzato davvero, nel concreto: la geografia era scomparsa.

Viaggiando ho capito che la profonda essenza della società dei consumi si manifesta con caratteri più vistosi nel turismo di massa. Il turismo di massa costringe lo spazio ad adattarsi all’economia.

Il luogo viene fagocitato e diventa attrazione; la storia si dissolve nella nozione; perfino la gastronomia viene catturata nel processo. Si ha, in ogni ambito, la tipizzazione delle cose.

Il viaggio, in ultima analisi, ha perso importanza educativa e formativa; non è più quello il suo ruolo.
Quello che oggi si cerca nel viaggio è la distrazione, lo svago; è l’aspetto ludico (o terapeutico) che interessa. Viaggiamo per dimenticarci del lavoro, delle malattie, della vita; compriamo delle panacee che ci facciano scordare di noi per due settimane.

È quello che molto meglio di me ha descritto D. F. Wallace nel suo “A Supposedly Fun Thing I'll Never Do Again”, non a caso scritto a metà degli anni Novanta in America, all’apice della potenza di fuoco dell’economia americana.

Quello che mi interessa maggiormente è come le città abbiano reagito a questo tipo di viaggio-terapia, che non è legato al dato geografico, cioè allo spazio, quanto piuttosto alla persona.

È innegabile che oggi il turismo di massa abbia deformato e bruttato, forse per sempre, città di importanza capitale per la nostra (intendo qui “italiana”) storia. Città come Roma, Bologna, Firenze e soprattutto Venezia hanno perso la loro “aura” e si sono adeguate all’economia, forzate o interessate a prostituirsi per denaro.

Genova no. È stata una rivelazione per me vedere come questa città abbia resistito, lasciandosi solo sfiorare dal “falso progresso”, dal lucro economico, rimanendo intatta nella sua atmosfera.
A Genova mi sono sentito a Genova, e non in una città che recitava la parte di Genova.

Non so dire le cause di questa mia impressione.

Forse è stata aiutata (o sono stato influenzato?) dalle canzoni di de André, che non suonano tipiche, sdolcinate o tradizionali ascoltandole per i carruggi, ma profondamente radicate, specchio fedele della città (e se non ci credete, camminate per Via del campo di notte);

forse è stata aiutata dalla sua ingrata topografia, sia per il traffico che per le gambe dell’obeso turista americano, che ha costretto una città asfittica a trovare una inusuale dimensione verticale;

forse invece è stata aiutata dal porto e dai suoi topi o dalla sopraelevata Aldo Moro e il suo traffico, che la imbruttiscono senz’altro, è vero, ma di sicuro le permettono di sfuggire allo sterile cliché di città da cartolina;

forse, infine, anche la densa immigrazione ha contribuito affinché la città rimanesse vera e viva, abitata da genovesi e non da turisti: gli immigrati sono venuti per lavorare e viverci, e non lasciarsi vivere da altri.
Vivono la loro città, abitano le loro vie, posseggono saldamente i loro carruggi.

Credo che anche il G8 del 2001 abbia avuto una sua parte importante nella preservazione dell’aura di Genova. Una delle pagine più importanti e tristemente famose della nostra storia contemporanea è stata scritta proprio sui saliscendi della città, tra le strette vie della città alta, dove oggi slogan di bomboletta ricordano la morte che ha chiuso la “più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”.

Genova vibra di una storia vicina, che ti senti prossima, che ti alita sul collo, che ancora ti fa affondare le unghie nei palmi. Non si può visitarla senza ricordare quello che è successo in quei giorni di luglio; per forza ricordi dov’eri in quei giorni, con chi ne hai parlato, le posizioni che hai preso: in una parola, sei costretto a ricordarti di te stesso, e addio al viaggio-panacea.

“La Superba” resiste ancora, come ha resistito ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, che ne sviscerarono il centro (ancora oggi, inspiegabilmente e sublimemente, si possono vedere le rovine di una casa bombardata in piazza delle Erbe, monito migliore di mille monumenti ai caduti).

Resiste anche nel suo magnifico dialetto cantilenante, che sa dei profumi delle spezie che nel dodicesimo secolo dovevano ammassarsi sulle tavole dei mercanti in piazza Caricamento e sotto i portici, e che la resero una delle città più ricche d’Europa.

Resiste nei suoi panni appesi ad asciugare che ti scendono in faccia e nella striscia di cielo che le case a otto piani, sprezzanti, si degnano di farti vedere.

Resiste, “città intera”, nelle sue prostitute ferme agli angoli in pieno giorno, e nelle bambine che le guardano passeggiando con la mano nella mano della nonna, affresco straordinario come le canzoni dei suoi cantautori.

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