domenica 18 aprile 2010

La conquista della letteratura

LA CONQUISTA DELLA LETTERATURA:
Postfazione a "Tre dialoghi" di Iacopo Gardelli
Sentire tutto in tutte le maniere,
Vivere tutto da tutte le parti,
essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo.
- Fernando Pessoa



La totalità dell’esperienza sensibile, colta al momento dell’evoluzione spirituale che muove dal mondo terreno a quello ultraterreno, rappresenta, nel dialogo intitolato La morte di Eraclito, la comunione con il tutto, resa possibile da una precisa presa di coscienza: il Conflitto, ciò che sta alla base delle leggi del cosmo, è da intendersi come principio armonico e costruttivo, fautore di un ordine-nel-disordine.

Eraclito, instabile fra due mondi, coglie con quel che resta del suo corpo sensibile alcuni aspetti propri di una nuova realtà; lo stesso vocabolario tende ad unificare due modi diversi di intendere il reale, provando da una parte a rendere partecipe Cratilo, ancora di apparente salvezza, del viaggio appena intrapreso, e dall’altra cercando di volgere ogni grammo di spirito alla conoscenza che ora illumina di nuova luce le cose rendendo i loro contorni più netti.

Guarda il mio corpo! Cosa mi succede? Ho rotto gli argini, è vero? Sto esorbitando, le membra non reggono più. Tra poco uscirò da me stesso, Cratilo; queste parole testimoniano l’oscillazione dell’anima, intesa antroposoficamente come elemento di contatto fra la coscienza e la realtà, da una sfera all’altra dell’universo, dal mondo sensibile a quello soprasensibile.
Rudolf Steiner, nel commento a Le nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, interpreta il sentirsi come al centro di una tempesta del protagonista proprio in questi termini: l’anima, partecipe del corpo etereo, si allontana dalla percezione corporea e quindi dalle forze cosmiche irrigidite in forme stabili. Ciò che si trova al di là del corpo materiale è proprio la mobilità della sfera sovrasensibile, che rischia di traviare l’esperienza animica, se il soggetto non ha affrontato prima un’adeguata preparazione su di sé.

Eraclito, nel suo “esorbitare”, testa le sue capacità spirituali nel tentativo di descrivere il passaggio al mondo ultraterreno, utilizzando ciò che di più tipicamente umano egli possiede: il linguaggio. La parola si fa quindi tramite fra due mondi, curva di congiunzione fra materiale ed etereo.

L’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo recita la prima massima antroposofica. Il filosofo efesino penetra coscientemente il mistero del tutto, ricongiungendosi ad esso e riconoscendone il flusso necessario, che muove dalla persona al tutto, dal tutto alla persona. La persona non era un inizio, dice Eraclito, poiché la persona era (ed è) il durante di tale flusso, di tale ordine conflittuale, che si stabilizza per poi fuoriuscire continuamente in un ordine ciclico di evoluzione e dissoluzione.

Investigare se stessi, per citare una massima eraclitea, significa quindi acquisire progressivamente coscienza della concavità del nostro essere – terra, ovverosia del nostro essere obliqui.
La chiave per penetrare le leggi del cosmo va ricercata in noi.
Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me recita l’epitaffio sulla tomba di Kant. La frase dovrebbe essere modificata nel modo seguente: Il cielo stellato e la legge morale dentro di me.
Il “fuori” è un concetto astratto che tende a confinare l’uomo in una prigione che in realtà è l’unica via possibile verso la libertà e la conoscenza: il corpo.

Tre dialoghi racconta di un unico, grande percorso e i tre filosofi rappresentano tre tappe ben distinte di tale cammino. Se Eraclito simboleggia il raggiungimento della consapevolezza, Pitea, protagonista della parte centrale, coincide con il processo di sviluppo e di distacco.
Navigatore temerario, dall’aria dannata e tragicamente romantica, Pitea è un pellegrino dello spirito che ancora fatica a riconoscersi nell’assoluto, pur avendolo toccato in una delle sue manifestazioni più sublimi: quella del viaggio.
Pitea, tornato alla sua terra, appare come uno spettro che non riesce più a collocarsi nel reale: avendo visto tutto, sente di non appartenere più a niente.
Ha gli occhi bruciati da troppo vedere, riflesso di una mente che ha vissuto in negativo la rivelazione: Pitea vuole fuggire da quello che cerca e, soprattutto, da quello che ha trovato. Come Eraclito, il navigatore rimprovera coloro che tentano di trattenerlo in un mondo dove la luce abita in eterna inquietudine, citando Novalis.
Per tornare di nuovo al poeta romantico, quel flutto terrestre che si scorge sul limitare delle nostre percezioni spinge il viaggiatore verso la disperazione e il rifiuto, poiché il corpo in cui si trova confinato non può, secondo lui, farsi strada attraverso il mistero.

Il Conflitto che percepisce Pitea è quindi un principio disarmonico che vede contrapposti in maniera irriducibile finito ed infinito, fenomeno e noumeno. Pitea, vicino un tocco all'evoluzione spirituale, resta qualche passo indietro, e questo significa per lui la condanna.
La mancata comprensione del senso del viaggio spinge il navigatore verso una fuga, verso un movimento che non ha un fine accrescitivo ma che si fa simbolo di un pericoloso sentimento nichilista.

Il nichilismo è un passaggio che conduce Pitea all’abbandono di ogni proposito: al contatto con il mistero (o Conflitto) eleva il suo corpo a suprema debolezza, impossibile da dimenticare o da ignorare. Non esiste pacificazione: solo il rifugio nell'oscurità della propria mente.

Risalendo il fiume si giunge al primo confronto con l’idea di un cosmo conflittuale: il dialogo d’apertura, dal titolo La condanna di Ippaso, rappresenta forse nel migliore dei modi la dicotomia tipicamente occidentale che corre fra percezione ed essenza.
Il testo è basato sull’alternanza parola – silenzio – parola, in un circolo che ricorda, anche in questo caso, quella “corrente”, quella sorta di movimento che progredisce attraverso il suo essere puro incedere.

La contrapposizione fra parola è silenzio è ciò che dà vita alla letteratura: la volontà di parola e la volontà di silenzio sono le due grandi forze attraverso cui sintetizzare un percorso accrescitivo che tenga conto dell’importanza di entrambi gli elementi.
Ippaso, il dialogante muto, è contrapposto al pitagorico, colui che parla, simbolo di un verbo ininterrotto, di un logos perpetuo.
Il silenzio di Ippaso rappresenta, in questo caso, la verità: di fronte al mistero anche la parola più forte è destinata a crollare.
La condanna di Ippaso è dovuta forse alla dimostrazione della debolezza della parola e della finzione in cui essa ha gettato tutto il genere umano.

La parola è maschera del nulla, un’impalcatura fragile sospesa sopra un silenzio infinito.
L'assenza è percepita e di conseguenza rifiutata: la scuola Pitagorica si è assunta il compito di costruire una serie di precetti per non porre l’essere umano di fronte all’incubo di se stesso, di fronte al terrore del vuoto.
Si tratta qui di fare diversi passi indietro. La comunione fra spirito cosmico (silenzio) e spirito umano (parola) è in questo caso impossibile.
Il primo conflitto è un conflitto totalmente negativo, che non può conoscere una sintesi; il processo graduale di compenetrazione parola – silenzio evolverà nella pratica conoscitiva della letteratura, reale punto d’incontro fra mondo fenomenico e mondo noumenico.

Dal Conflitto negativo Ippaso – Pitagorico (assenza di confronto attivo), passando per lo sviluppo del viaggio di Pitea (confronto attivo con il mistero ma incapacità di compenetrazione), si giunge al Conflitto propositivo proprio di Eraclito: Il silenzio e la parola sono giunti finalmente al corpo sintetico della letteratura.

Cratilo, alla morte di Eraclito, si spoglia ed esce nella notte; alza gli occhi al cielo e guarda le stelle. Il suo percorso è appena cominciato.

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