martedì 29 giugno 2010

Peter Stein. Una giornata di demòni.

Dodici ore.
La rappresentazione dei Demoni di Peter Stein dura esattamente un giorno: dodici ore di recitazione intensa, trama complicata e impronunciabili nomi russi.

Una maratona teatrale per ridurre in parole, fiato ed aria le settecento pagine del capolavoro di Dostoevskij.

Nonostante le non rosee previsioni, lo spettacolo è andato bene: il pubblico ha apprezzato ed è riuscito a resistere per tutto il tempo seduto sugli scomodi sedili del palazzetto dello sport, largamente aiutato dalle pause pranzo e dai frequenti caffè – addirittura, alla fine dello spettacolo, sembrava sinceramente commosso, prova gli interminabili minuti di applausi e una standing ovation liberatoria.

Un po’ la moda, un po’ l’evento, un po’ la stima per la fatica disumana che deve essere costata agli attori per memorizzare le migliaia di battute dell’opera, un po’ il genio di Dostoevskij, un po’ il mangiare praticamente gratis, – sono tutte possibili risposte, ma non sono sufficienti per spiegare l’afflusso e il successo del lavoro di Stein.

Dodici ore di disquisizioni altissime sull’esistenza o l’inesistenza di Dio, sulla legittimità o l’illegittimità del suicidio; dodici ore di straordinari monologhi sui più profondi baratri dell’esperienza umana e sui “demoni” che infettano il nichilismo e lo trascinano ad un pensiero folle e autodistruttivo; dodici ore di ricostruzione magistrale sulle ragioni filosofico - politiche della crisi russa di fine Ottocento, e di amara (poiché profetica) satira sulle società socialiste pseudo - rivoluzionarie della Russia provinciale; dodici ore della più pura tragedia, di drammi sociali e individuali, di demoni appunto: tutti ingredienti da far rizzare i capelli alla maggioranza, e assolutamente incapaci di competere col piacere sublime di una giornata al mare. Figuriamoci poi se lo strazio dura un intero giorno di sole.

Ho sentito il bisogno di pensare ad altre cause, di indagare un po’ più a fondo le ragioni del successo dello spettacolo del 26 giugno e dell’entusiasmo del pubblico.

Come spesso mi accade, le ho trovate nella tradizione antica che continua a scorrere nel nostro sangue, e che siamo incapaci di abbandonare.

Ragioni che affondano le radici nelle giornate teatrali greche, quando durante le gare drammatiche si passavano giorni interi a teatro a vedere passare sulla scena centinaia di personaggi e d’intrecci tragici, impegno che doveva migliorare il pubblico poiché lo purificava (catarsi).

Questo caso è simile: la differenza fondamentale sta proprio nella durata.

Uno spettacolo di due o tre ore occupa una parte minima, ancorché culturalmente importantissima, della nostra vita. Abbiamo l’opportunità di decidere del nostro tempo libero, e possiamo impiegare quelle sacre orette alla nostra crescita spirituale.

Che bello andare a teatro! che bello il nostro abbonamento! che bello lasciarci vedere dagli altri nel foyer, e dire agli amici, con quell’aria così linda e giusta, “stasera non ci sono: vado a teatro!”

Finite le due o tre ore, si torna a casa, si cerca di ricordare qualche battuta importante o divertente e si fila a letto soddisfatti. Fine della crescita spirituale.

Scegliere di sacrificare un giorno intero ad uno spettacolo, cosicché, per una volta almeno, è lo spettacolo a farsi vita e non viceversa, cambia di colpo le carte in tavola.

La partecipazione è realmente attiva, sia per lo spettatore sia per l’attore: non si può fare a meno di seguire, pena la perdita completa di un giorno intero; e, per ovvi motivi artistici, non ci si può non appassionare del personaggio recitato.

L’intimità tra attore e pubblico cresce ogni minuto fino a toccare vette impensabili (e insperabili) in uno spettacolo “normale”: si condivide la fatica da entrambe le parti, s’impara a riconoscere i tratti salienti di ogni personaggio, il suo timbro vocale, i suoi tic, la sua gestualità, e con essi la cura che l’attore ha speso per creare il suo alter-ego.

Si forma lentamente tra gli spettatori quella sorta di spirito goliardico che si vive durante le gite, o durante i lunghi viaggi, che eccita gli animi e stimola l’attenzione e la personificazione del “pubblico-uno” con gli uomini sulla scena.

S’impara a conoscere il proprio vicino che ride o sobbalza così come s’impara a conoscere il personaggio che recita.

Una maggiore consapevolezza ed impegno da parte del pubblico, causata semplicemente dalla maggiore durata dello spettacolo: questa la ragione principale del grande successo di Stein.

La famosa quarta parete, quella distanza metafisica che separa attore e pubblico, spettacolo e vita, viene finalmente abbattuta dal teatro di Stein.

Non si tratta di trovate sceniche pirandelliane; si tratta invece di una ben più radicale condivisione dimensionale, ovvero il tempo.

Dal punto di vista meramente fisico è il tempo che viene condiviso da attore e spettatore; non è il tempo condensato del “teatro normale”, dove in tre ore “reali” sono compressi anni “teatrali” (mi viene in mente Brecht): qui il tempo del pubblico coincide col tempo della scena.

Basta questo per coinvolgere il pubblico in maniera originale e totale.

Ne sono testimonianza i sobbalzi quasi unanimi durante il duello tra Starovgin e Gaganov, reso magistralmente dal regista tedesco; le risate collettive suscitate dalla cultura provinciale e parolaia di Stepàn Trofimoviĉ; le smorfie di orrore dipinti su tutti i visi, grinzosi o meno, alle argomentazioni malate di Kirillov.

Stein è riuscito a far rivivere un’opera d’arte: l’ha liberata dalle prigioni di carta, come scrive Bernhard, e l’ha consegnata al pubblico nel suo contesto, essenziale per comprenderla. Come ha confessato lui stesso, che non è nuovo di queste maratone, non importa quanto si impiega a mettere in scena un libro come I demoni, bisogna dargli il tempo che richiede.

Solo così l’opera, ormai lontana dal nostro tempo, acquista un nuovo senso, e sembra parlare direttamente al pubblico del terrorismo dei nostri giorni, di quel demonio autodistruttivo che sentiamo aleggiare nell’aria prima della crisi, del nichilismo giovanile, di quel male che sembra assoluto, ma che in realtà non lo è mai ed ha la sua ragion d’essere nelle scelte e nella storia dell’individuo.

Solo così il teatro riacquista la sua vera funzione storica, troppo spesso dimenticata nei foyer e nelle seggiole di velluto: far arrivare il messaggio al pubblico più ampio possibile; educare, purificare, democratizzare.

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