domenica 20 giugno 2010

Il viaggio e la scomparsa della geografia. Venezia.

Dedico questo intervento ad Andrea Bottarel - el xe un vecio Virgilio.


Dov’è Venezia?

Oddio, ci mancavano solo le domande retoriche.

Purtroppo non lo è: a) sarebbe più facile rispondere e b) non avrei sentito la necessità di scrivere questo intervento.

Sfortunatamente per tutti noi, questa è una domanda più che mai attuale ed urgente.

Da tempo ormai Venezia è scomparsa; eclissata dal turismo, appiattita dagli obiettivi, svuotata dalla vita - l’unica cosa che fa sì che una città sia una città vera. Da tempo si è nascosta e non la ritroviamo più.

Molti non se ne accorgono nemmeno, accecati da una bellezza eccessiva, o troppo impegnati a ritrovare la strada per l’albergo senza perdersi.

C’è anche a chi non interessa nemmeno che la città sia scomparsa. Velleità da artisti, fregnacce da effemminati: cosa vuol dire è scomparsa? Gli edifici sono ancora lì, ben saldi; i canali puzzano come sempre; i negri vendono sempre le loro borse falsate ai lati di Canal Grande.


Che è successo?

Ci siamo distratti per pochi anni, non potevamo immaginare che tutto sarebbe stato così veloce.
Lo facevamo solo per l’immagine - e per soldi.
D’altronde era la città turistica per eccellenza, orgoglio italiano, un modello da seguire e da imporre.

Economizzare, economizzare, economizzare.

Ho già accennato a Venezia in altre sedi, al suo progressivo prostituirsi; all’appiattimento dovuto al turismo di massa, a un processo di distruzione lento e costante che rischia di soffocare e atrofizzare alcune delle città più belle del mondo. Non mi voglio ripetere. Si tratta adesso di ritrovare una città che non si vuole far trovare.

La città ha reagito! Si è nascosta, si è spostata. Ritrovarla è diventata un’impresa da esploratori.
Anche dal punto di vista fisico è faticoso; bisogna avere buone gambe e buona pazienza. E, naturalmente, fortuna.

Venezia è un pesce, è vero; nel senso che ti sfugge dalle mani.

L’ho visitata spesso, e non mi ha mai fatto impazzire. Tanta gente, tanta da non riuscire nemmeno a parlare. Meta sempiterna di migliaia e migliaia di scolaresche romagnole, e di lamenti per gradini e camminate forzate; città d’arte e della Biennale, città di moda, città del capriccio; città del lusso e delle star.

Tutto quello che odiavo dello spettacolo si raggrumava lungo le calli e le callette, lungo le salizade e i rii, nei campi e nei campielli, sotto forma di turisti, di negozi luccicanti, di veneziani scorbutici e anestetizzati dal turismo, che parlano dialetto per non farsi capire.
Tutto questo succede ancora oggi.

Come ritrovare la città?

Ecco il grande cambiamento dei nostri tempi. Non ha più senso l’espressione “visitare una città”. O meglio, non ha più senso dirlo per tutte le città. Non puoi, ad esempio, visitare Venezia.
Puoi andare lì a guardarla, ad ammirare gli edifici e le persiani tutte uguali e verdi e scrostate d’umidità, studiare architettura; puoi andare là con la donna, in cerca di tramonti strappalacrime e strappassegni.

Non la vivrai mai.
Hai bisogno di una guida, di qualcuno che è nato là, e ci è cresciuto. Come un inferno dantesco hai bisogno di un Virgilio che ti prenda per mano, e che ti faccia scoprire delle (sempre più) esigue porzioni di terra non ancora conquistata.

Tutto questo è triste: anche solo il fatto di avere bisogno di una guida implica una minorità, segno dei tempi che viviamo, tempi di padri e non tempi di figli.

Questa minorità insegna tuttavia una cosa importantissima, che pochissimi ormai comprendono ancora. Una lezione che riempie di speranza chi la capisce a fondo e marca davvero una distanza incommensurabile tra il turista e il non-turista. Insegna il senso del viaggio a generazioni sempre più disinteressate e annoiate. Insegna a essere felici visitando città straniere.

Riappropriarsi della geografia, portare a casa un pezzo di quella città che andrà a costruirne un’altra, infinitamente più importante. La tua città, che non coincide con la residenza, il domicilio, con il luogo di nascita, con la meta preferita, ma è una somma di tutte queste e di tutte le altre città che abbiamo visitato in vita e che, in un qualche modo, sempre diverso, ci hanno arricchito.

Questa è la cosiddetta città ideale.

Allora capisci che Venezia non è a Venezia, ma a San Michele, un miracolo artificiale; fortezza quadrata lambita dalle onde della laguna; dimensione altra, scandita dal ritmo dei cipressi e delle tombe, e dal risciacquare delle maree contro i leoni di pietra erosi dalla salsedine.

Capisci che Venezia è a Sant’Erasmo, distesa su campi coltivati improbabili e patagonici che si perdono all’orizzonte.

Venezia è dentro le corti difese dai pesanti cancelli di ghisa, e si schiude in piccoli miracoli di marmo e edera, su capitelli dimenticati, in mosaici nascosti dal nero dell’umidità.

Venezia è a Castello, di notte, nel silenzio antico di un silenzio senza macchine e nel frusciare di reti da pesca appese alle porte di casa.

Venezia è nelle colonne del mercato del pesce, sulle incisioni duecentesche di crociati in attesa delle navi per Istanbul.

Venezia è nelle statue sbilenche dei Mori, che sembrano guardarti (quelli che ancora hanno una testa) con immensa melanconia, quasi con spavento, forse pensando ai loro commerci perduti, quando Venezia era la città più potente del mondo, e non correva il rischio di perdersi.

Venezia è nel sapore del baccalà mantecato e delle ombre in osterie dove non si parla l’italiano.

Venezia nelle pietre colorate coi gessetti dei bambini, in campo San Giacomo.

Venezia è nei soldatini dimenticati e polverosi, come Lari di case romane, dentro i muri di calli sperdute.

Venezia è a San Marco - ma solo di notte, quando la città ricomincia a respirare.

2 commenti:

  1. Certo, il turismo di massa è probabilmente il modo peggiore per scoprire una città, però si deve anche considerare che non tutti i "forestieri" hanno il privilegio di essere scortati da un sapiente Virgilio "indigeno". E non si può pretendere che certi luoghi "sacri" agli occhi svogliati del turista medio (figurativamente quello che gira perso in una comitiva tra le viuzze con un panama in testa, lo zaino invicta sulle spalle e la "compatta" al collo) siano ricercati per conoscere la "vera" città. Semplicemente lui si limita ad afferrare un'emozione stereotipata trasmessa dalle agenzie di viaggio o dai racconti della vacanza degli amici e si accontenta di quella. E non si può fare colpa alle sue poche pretese, in quanto la sua concezione di viaggio non corrisponde altro che all'idea comune di una società occidentalizzata, che ha vissuto il capitalismo e la globalizzazione, in un mondo dove qualcuno ha capito che "luoghi interessanti+ turista medio = soldi".
    Questa è la normalità di ciò che chiamiamo viaggio, e ripeto che non si può farne una colpa a chi da anni ci specula (anche se ciò non giustifica la mancanza di cambiamento) e da chi ne fruisce, attendendo ore in balia del clima in code che dall'esterno sembrano orgie, per entrare in musei ormai troppo pieni di persone per capirci qualcosa, con una tirannica guida annoiata, per poi scattare foto da far vedere all'amico svogliato un pigro martedì pomeriggio.
    Questo, ad oggi, è il viaggio.

    J.

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  2. Io non incolpo nessuno.

    Cercare di incolpare qualcuno o qualcosa sarebbe stupido, in quanto per incolpare hai bisogno di individuare. Lezione di Pasolini.

    Purtroppo non abbiamo l'opportunità di individuare, e le cause vanno ricercate astrattamente, partendo dalla descrizione del comportamento sociale.

    Chiunque pensi che partire dall'astratto per arrivare al concreto sia una pazzia, ebbene egli si sbaglia.

    In questi casi non si possono additare dei responsabili unici; sono costretto ad usare, anche se non posso sopportarlo, un composto hegeliano: Zeitgeist. E' solo lui il responsabile.

    Prendo atto della tristezza dei nostri tempi, ne denuncio l'incancellabile presenza in ogni nostra azione, cerco di attirare l'attenzione su temi di cui posso parlare con una, almeno basilare, cognizione di causa.

    Niente di più.

    Quando sapremo i nomi, allora sarà il momento di urlare il nostro "Io so".

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