martedì 8 giugno 2010

Saviano e la presenza

Come ormai saprete, Roberto Saviano è stato chiamato a concludere la quinta edizione del Festival dell’economia di Trento. I temi egli incontri di quest’anno vertevano sull’informazione e sulla sua ricaduta economica nelle scelte quotidiane: mai ospite fu più azzeccato, verrebbe da dire.

Non mi sento in questa sede di commentare le parole e i contenuti della serata; quelli li potete ascoltare direttamente con le vostre orecchie su questo link, e si commentano da soli.

Mi piacerebbe piuttosto addentrarmi in breve su un tema, apparentemente secondario e secondo me poco compreso, ma di capitale importanza per capire appieno la figura di Saviano, al di là di tutto quello che è stato detto sulla sua eroica lotta alla mafia e sul suo impegno civile – argomenti immensi e nobili, ben inteso, ma che non mi sento di trattare.

Il tema è quello della presenza.

“Perché così tanta gente fuori del teatro?” “Come è possibile che uno scrittore attiri enormi masse di spettatori e lettori, nonostante sia spesso – ma non abbastanza – presente sulle nostre televisioni?”
“Perché non lasciare parlare le sue parole, come per tutti gli altri?” “Ci sono ragioni plausibili per questo successo che non siano direttamente riconducibili all’eco mediatica?”

Queste sono le domande che mi rimbalzavano in testa prima di entrare nell’Auditorium S. Chiara di Trento. Attorno a me tutti ugualmente grondanti di sudore: studentesse smaltate amoreggianti; cinquantenni panciuti aggrappati alle transenne; i soliti ex-sessantottini logorroici e strapolemici; attorno a me tutti ugualmente parlano di mafia; discutono di politica; si emozionano al solo pensiero di poter vedere il loro eroe, Roberto Saviano.

Solo un anno fa avrei bollato questo sensazionalismo come moda o eco mediatica, e in ogni caso ne avrei dato una connotazione principalmente negativa, come spesso mi capita per gli avvenimenti di massa. La gente – avrei detto – non ascolta nemmeno le parole di Saviano, non ha letto i suoi libri, non capisce la sua terribile situazione, lo segue così come le ragazzine seguono le boy band. Moda. Evento mediatico. Apparenza.

Mi sono ricreduto. Non è così, o almeno, non è semplicemente così.

È vero, Saviano è diventato un’icona; non posso che dar ragione a chi attacca lo scrittore sfoderando l’arma della popolarità. E, altrettanto vero, il processo di iconizzazione ha i suoi svantaggi. La figura tende ad appiattirsi o ad astrarsi dal mondo. Spesso la popolarità fa nascere dicerie, genera odii e diffamazioni, incontra la diffidenza della classe colta. Ancora più spesso iconizzazione è sinonimo di fossilizzazione e, di conseguenza, d’incisività.

È vero, Saviano è diventato un’icona, e deve sopportare gli svantaggi della sua situazione (perdita della privacy, massificazione del messaggio, manifestazioni estreme d’affetto e disprezzo, ambienti spettacolari).
Ma qualcosa nel meccanismo spettacolare si è inceppato.

Come ha ammesso anche lo stesso scrittore, la sua visibilità iconica è diventata la sua salvezza.

Ho capito appieno il significato di questa frase, di primo acchìto totalmente illogica, solo durante l’incontro del 6 Giugno scorso.

Sono seduto nella sala gremita. Si spengono le luci. 900 persone ammutoliscono.
Gli attimi precedenti alla sua entrata si permeano di un silenzio sacrale. Un silenzio quasi assoluto, impossibile nel 2010, improbabile tra quella massa vocicchiante, implausibile per tutte quelle macchine fotografiche digitali ronzanti.

Eppure, come prima di una liturgia, il silenzio acquista un valore diverso: è più che rispetto, più che ex voto ad una celebrità. È un silenzio di comunione, palpitante e vivo.

Difficile non cadere nella retorica, quando si parla di presenza.

Saviano, sacrificando la sua vita, ha acquistato proprio questo: la presenza.

Come scrive Walter Siti nella prefazione all’ultimo lavoro di Roberto, La parola contro la camorra, la presenza è quel carisma che penetra in ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni pausa dell’oratore, capace di magnetizzare occhi e orecchie dell’ascoltatore: è “la situazione aurea del narratore”.

Benjamin parla di aura in campo artistico. Una vera opera d’arte, se “caricata”, per così dire, da abbastanza sguardi e valorizzata dal contesto, viene avvolta da un’aura particolare, che permette anche ai meno colti di capire che “quella sì, quella è un’opera d’arte, mica come la robaccia di oggi”.

Si potrebbe traslare il concetto di Benjamin sulla persona di Saviano.

La condanna della mafia pesa concretamente sul suo viso, il terribile status di dead man walking infrange lo schermo spettacolare debordiano – una sorta di quarta parete, un po’ come nel teatro – e permette alla sua parola di farsi viva, di risuonare nelle coscienze, di far capire. In altri termini, permette alla sua parola di divenire autorevole.


La particolarità di Saviano è proprio questa: sfruttando il suo status di icona è riuscito ad infrangere il rullo compressore delle notizie, quella sorta di mantra mediatico che non consente allo spettatore medio la comprensione e gli dà solo l’illusione dell’informazione.

Nei telegiornali (di ogni rete, di ogni paese) le notizie s’infrangono l’una dopo l’altra come le onde sulla spiaggia: hanno tutte lo stesso rumore, tutte gli stessi tempi. Il risultato è un frastuono caotico che pian piano diviene rumore di fondo ed ottiene gli stessi risultati del silenzio.

Il messaggio, per eccesso di messaggi, si dissolve.

L’urlo d’aiuto di Saviano ha lacerato questo velo, ha bloccato la pellicola. Ha permesso alle informazioni di arrivare pulite e chiare fino alle nostre orecchie. Ha unificato il paese attorno ai temi più importanti – criminalità e politica, i legami tra esse e le ricadute della loro commistione sulle nostre vite – ed ha informato meglio di quanto abbia mai fatto la televisione.

Come scrive I. B. Cohen, si può misurare il successo di una rivoluzione, nella scienza così come in politica, dalle ostilità che solleva alla sua nascita.

Saviano ha creato una rivoluzione in campo informativo, e lo si può capire dalle critiche e minacce che ha ricevuto: non solo attacchi feroci da mafiosi come Bidognetti o Iovine (comprensibile dato che si sono trovati nell’occhio del ciclone mediatico grazie a Gomorra), ma anche giornalisti - Emilio Fede - e perfino le massime cariche politiche – c’è bisogno di fare il Nome? Berlusconi – hanno diffamato e umiliato lo scrittore con la fetida accusa di sporcare la propria terra. Evidentemente, deve avere arrecato un qualche fastidio al Palazzo.


E questa rivoluzione l’ha pagata al prezzo della sua stessa esistenza. La parola è diventata paradossalmente il suo impegno alla vita.

Parlando da filosofo (!) potrei azzardare che il suo essere si è verbalizzato. La parola, da segno morto, da mero inchiostro si è elevata segno vitale, ad azione.

Mai nella storia del nostro paese si era vissuto qualcosa del genere.

Saviano è forse il primo che ha saputo trarre a vantaggio la sua condanna, che ha saputo massimizzare in positivo gli effetti di iconizzazione, risvegliando coscienze civili prima anestetizzate, grazie alla sua presenza.

Per questo è così importante vedere dal vivo, toccare concretamente il corpo di Saviano; innanzitutto per ricordarci che esiste, che non è l’ennesimo prodotto dello spettacolo; e poi, molto più importante!, per capire che la sua presenza fa ormai parte della sua persona e non dipende dal filtro televisivo.

E che, nonostante ogni delegittimazione, ogni diceria, ogni cattiveria, e perfino in caso di morte, non sarà mai più possibile strappargli la sua presenza.

2 commenti:

  1. Ti ringrazio, Riccardo.

    Credo sia giunto il momento di realizzare compiutamente che Saviano non è soltanto un grande sostenitore della lotta contro la mafia (o meglio, le mafie) ma anche e soprattutto un eccezionale scrittore.

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